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domenica 2 novembre 2014

Ed è l'odore dei limoni

"Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni."

Foto di Gea

Nelle aree in cui si coltivano gli agrumi, un minuscolo artropode semina il panico. L'arancio amaro, il pompelmo, il cedro, ma soprattutto il profumatissimo limone sono le piante attaccate da un acaro chiamato Eriophyes sheldoni, noto ai più come l'acaro delle meraviglie.
Questo piccolo animale (0,1 / 0,2 mm di lunghezza da adulto) predilige alcune varietà di agrumi in generale e di limoni in particolare.
Esso trascorre l'inverno all'interno delle gemme della pianta finchè, al momento della ripresa vegetativa, raggiunge le nuove gemme e si ciba di esse pungendole.
Le gemme a fiore punte dal piccolo acaro daranno origine a fiori che cadranno precocemente, mentre quelle che da cui nascerà il frutto daranno una “prole” deformata, tentacolare, dall'aspetto di un polpo. Questi frutti sono definiti meraviglie.
Dove il frutto viene punto dagli acari, infatti, non si sviluppa,
a causa di alcune sostanze contenute nella saliva del piccolo artropode, mentre continua tutt'intorno la sua crescita.





In condizioni favorevoli l'acaro si riproduce ogni 15 giorni nel periodo estivo e ogni 20- 30 giorni nella stagione invernale. Di solito esso viene trasportato da una coltivazione all'altra attraverso il vento o a causa dello spostamento di attrezzature vivaistiche. Proprio la sua capacità di riprodursi velocemente durante l'estate ed il fatto che in inverno viva riparato nelle gemme lo rendono un temibile avversario per le coltivazioni di limoni ed agrumi più in generale.
In un passato non lontano le meraviglie sono state prese come simbolo della lotta contro l'inquinamento, senza sapere che in realtà erano il frutto, è proprio il caso di dirlo, di un'infestazione di parassiti: gli acari eriofidi di cui abbiamo parlato oggi.

Da qualche parte, ultimamente, ho letto questa frase: “L'istruzione si paga una volta sola, l'ignoranza si paga tutta la vita”.


"Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno piú languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità."



Testo poesia da "I limoni" di Eugenio Montale (Ossi di Seppia,1925).
Immagini personali e tratte da Wikipedia.

sabato 30 agosto 2014

Blu aragosta
Lobster, she wrote

La maggior parte di voi ricorderà l'aragosta Pizzicottina, cui Homer era molto affezionato, in una puntata dei sempreverdi Simpson. Ricorderete anche i suoi sentimenti contrastanti al momento di mangiarla.
Se anche voi andate pazzi per i crostacei, specialmente le aragoste, sarete forse incuriositi dal fatto che esistono anche le aragoste blu!
La cosa che vi stupirà ancora di più è che non sono nemmeno le più rare.
L'idea per questo post mi è venuta dopo aver letto, qualche giorno fa, della cattura di un'aragosta blu nella costa nord est degli Stati Uniti, il ben noto Maine della Signora Fletcher e di Stephen King.

Aragosta blu
Foto di Justin Brook

Un tempo, tra il diciassettesimo ed il diciottesimo secolo, di aragoste in zona ce n'erano così tante che venivano addirittura utilizzate come fertilizzante per i campi. Tuttavia, nel secolo successivo questi crostacei iniziarono a scarseggiare e divennero, ovviamente, molto costosi per chi voleva consumarli.

Contrariamente a quanto ci dicono i cartoni animati, l'aragosta (in questo post mi riferisco alla variante nordamericana, Homarus americanus) non è rossa come quando la vediamo nel piatto, bensì ha una sfumatura che va dal rosso scuro/blu profondo al verdastro, poiché in questo modo essa riesce a confondersi meglio con il fondale marino.

Homerus americanus

Passando un po' alle statistiche, la probabilità di trovare un'aragosta blu è una su 2 milioni di aragoste. Sono un po' pochine, vero?
Ebbene, non sono le più rare, dato che esistono anche quelle gialle e che se ne trova una su 30 milioni. Esistono, inoltre, anche aragoste con esattamente metà del corpo bruno e metà rosso (una su 50 milioni di aragoste).

Aragosta bicolore
(no, non è un Photoshop)

Da questo punto di vista, sembra quasi abbastanza comune trovare un'aragosta blu, rispetto a trovarne una gialla o bicolore.
Tuttavia ho lasciato la chicca per ultimo: esiste un tipo albino di aragosta e, udite udite, se ne trova un esemplare ogni 100 milioni.


Aragosta albina
Credits YourDailyMedia

Le aragoste albine sono le uniche che non cambiano colore dopo la bollitura, diventando color rosso brillante, come accade con gli altri esemplari.
Provare per credere, dopo essere riusciti a comprare un'aragosta albina, naturalmente.

A questo punto facciamo chiarezza su tutte le varie colorazioni e diciamo forte e chiaro che la pigmentazione dell' esoscheletro del crostaceo dipende da proteine prodotte dall'animale stesso.
In particolare, qualche anno fa uno studio del Dr. Harry Frank dell'Università del Connecticut è stato pubblicato nel Journal of Physical Chemistry. Nel testo si spiegava il motivo della colorazione blu, imputandola ad un difetto genetico proprio dell'individuo che la esprimeva.
Abbiamo già detto che normalmente l' esoscheletro dell'aragosta ha una colorazione che va dall'arancione scuro fino al blu scuro/verdastro, frutto della presenza di pigmento carotenoide (astaxantina), che dà il colore aranciato, e di crustacianina, un complesso proteico costituito da astaxantine riunite in “mazzetti” da altre proteine.
Secondo lo studio di Frank, la vicinanza delle proteine riunite in un “mazzetto” fa cambiare la configurazione degli elettroni negli atomi che le costituiscono e fa in modo che l'intero gruppo assorba una radiazione luminosa diversa da quella che verrebbe assorbita da una singola molecola di astaxantina.
In questo modo le molecole riunite in gruppi danno delle zone bluastre sull' esoscheletro dell'aragosta.
In un esemplare di aragosta blu la situazione appena descritta è spinta al massimo, dato che, per una mutazione genetica, il crostaceo produce una gran quantità di proteine che riuniscono l'astaxantina in crustacianina. Per questo motivo la colorazione blu si estende a tutto l'animale.
In questo caso la mutazione non è molto favorevole alla povera aragosta, la quale spicca moltissimo sul fondale marino rispetto alle sue compagne e viene più facilmente catturata.
A questo punto la domanda sorge spontanea: l'aragosta blu, quando si cucina, resta dello stesso colore?
Risposta negativa, il calore dell'acqua disfa la crustacianina, liberando le singole astaxantine, che donano la tipica colorazione rosso brillante all'aragosta bollita.
Enigma risolto, dunque. Ne sarebbe fiera anche Jessica Fletcher!

venerdì 18 luglio 2014

La vite e la Fillossera

La scorsa settimana abbiamo parlato di come sopravvivere ad una degustazione ed abbiamo rispolverato l'assioma alla base dell'enologia: “il vino si fa con l'uva”.
Oggi parleremo della pianta che dà origine alla materia prima, diciamolo tutti in coro: la vite!
Anche se sembra che sia una pianta tutto sommato tranquilla, forse non immaginate che in passato ha rischiato l'estinzione in Europa. Sto esagerando? Lasciatemi partire dall'inizio.

Ci sono testimonianze dell'esistenza della vite fin dall'Era Terziaria (da 65 a 1,8 milioni di anni fa circa), il periodo in cui comparvero sulla Terra moltissime specie animali e vegetali. Da quel momento la pianta si è andata diversificando in tantissime varietà grazie a quattro fattori principali che hanno introdotto variabilità nel genoma:

1) la moltiplicazione sessuale;
2) la selezione naturale per l'adattamento a diverse condizioni climatiche;
3) la mutazione;
4) l'azione che l'uomo ha compiuto sulle colture per ottimizzare le caratteristiche del prodotto.

Ovviamente la vite fu coltivata in molte parti del globo, praticamente ovunque potesse attecchire, poiché da essa si potevano ricavare deliziosi frutti e una bevanda che nei secoli ha avuto i suoi estimatori in tutte le classi sociali. Il vino era anche, come lo è ancora d'altronde, un motore delle economie locali, dato che non a tutti piacciono le stesse cose e quindi si può giocare molto sulla varietà di colori, profumi e gusti.
Come ha anticipato un mio “fan” nei commenti al post della scorsa settimana, esiste infatti un'altra categoria tra quelle citate, che lui ha giustamente chiamato “amanti del vino”. Oltre ad essere un avvocato (chiarimento nemmeno tanto necessario una volta che avrete letto la sua definizione, ché gli avvocati, si sa, parlano latino molto spesso), è anche uomo di lettere e di fine umorismo, quindi  riporterò la sua definizione per capire meglio chi entra a far parte di questo gruppo.
Gli amanti "sanno" qualcosa, ma non hanno la presunzione di saper tutto, anzi desiderano sempre approfondire la conoscenza di ciò che amano.
E tendono il bicchiere, ma non acriticamente: nel senso
ex ante perché usano quel che sanno per fare una cernita, e nel senso ex post perché ricordano quel che hanno sperimentato e lo aggiungono ai criteri per le cernite successive.
In questo sono guidati appunto dalla conoscenza e dall' organolettica.
Con queste due ali anche lo sperduto può diventare amante.

Anche l'enologia ebbe, tuttavia, dei periodi molto difficili da superare.

Nella seconda metà dell'Ottocento, infatti, una vera e propria tragedia si abbatte sui vigneti europei.
Un minuscolo insetto, chiamato Fillossera (Daktulosphaira vitifoliae), sbarca dal Nuovo Continente sulle coste europee, portato dai primi battelli che facevano traversate oceaniche.
Le sue dimensioni sono pari a quelle di un afide e presenta polimorfismo funzionale, cioè gli individui della stessa specie presentano caratteristiche diverse in base alla loro funzione. Ad esempio, ci sono delle Fillossere con le ali ed altre senza, a seconda che debbano restare sulla pianta infestata oppure andare a deporre le uova su altre.

Fillossera con le ali

In generale, gli insetti di questa famiglia possono avere diverse piante preferite per l'attacco. E' nota anche la Fillossera che infesta il pero, ma oggi ci atterremo unicamente alle viti.
La Fillossera attacca le foglie e le radici della vite, provocando delle escrescenze su entrambe e deponendo le uova nelle galle (protuberanze) fogliari. L'infestazione è spesso accompagnata dall'attacco da parte di acari rizofagi e funghi.
L'avrete immaginato da soli che la pianta, nel giro di due o tre anni, deperisce pian piano fino a marcire.
Tuttavia l'attacco alle foglie piuttosto che alle radici dipende dalla pianta infestata.
La vite europea, ad esempio, non viene attaccata a livello dell'apparato fogliare, è immune alla puntura della Fillossera a questo livello, tuttavia le sue radici non lo sono.
I danni alle radici riguardano tutte le viti, ma si differenziano da specie a specie. Ad esempio, la vite americana in generale viene attaccata a livello radicale, ma solo alla periferia dell'apparato, dunque le radici non vengono compromesse nella totalità e la pianta supera indenne l'infestazione.

L'attacco dell'afide Fillossera distrusse in poco tempo i vigneti europei, primi fra tutti quelli francesi, e produsse gravi perdite economiche.

Fillossera che se la gode
in un'illustrazione del settimanale inglese Punch, 1890

Si cercò un rimedio, ma per circa trent'anni l'infestazione continuò inarrestabile.
Finalmente da Montpellier arrivò la proposta di Gustave Foeux, che si rivelò determinante nel fermare la moria di viti ed il collasso dell'industria vinicola: l'innesto della vite europea con quella americana.
Il ragionamento, a posteriori, era piuttosto semplice.
Alcune specie americane non venivano attaccate dalla Fillossera, poiché avevano sviluppato una resistenza nei suoi confronti, probabilmente dovuta a tanti anni di contatto con il parassita e quindi a mutazioni intervenute nel genoma.
Si decise quindi di innestare le radici della pianta americana resistente con la vite europea.
Fu il primo esempio di lotta biologica su larga scala e fu un vero e proprio successo, che salvò e salva ancora oggi l'intera produzione vinicola europea.

Vitis vinifera è la tipologia di vite coltivata in Europa ed è anche la pianta che si è deciso di innestare con la vite americana. Inizialmente, per la scelta di quest'ultima, si è ristretto il campo ai vigneti d'oltreoceano immuni alla Fillossera, poi sono stati creati degli ibridi per ottimizzare ancora di più le loro caratteristiche e questi ultimi sono stati innestati con Vitis vinifera.
Il risultato è stata una pianta di vite non attaccabile dal punto di vista delle radici e nemmeno da quello delle foglie, se ricordate quello che abbiamo detto poco sopra.
Se ve lo state chiedendo, le prime indagini dimostrarono che la parte radicale dell'innesto influisce solo sull'adattamento della pianta al terreno e sulla resistenza alla Fillossera, mentre la parte superiore della vite mantiene intatte le caratteristiche del vitigno europeo innestato.
Ovviamente prima di dare il via ad un intero vigneto l'innesto va testato.
Farne uno errato, infatti, può comportare un gran dispendio di denaro, dato che esistono parti radicali più o meno vigorose, che devono perciò essere associate a precise condizioni del terreno. La vigoria delle parti radicali, infatti, può influire sui tempi di maturazione e quindi sull'accumulo di zuccheri e polifenoli nell'uva.
Secondo quel che già sapete, il prodotto finale sarà quindi abbastanza differente nei vari casi.

Ora, per divertirci un po', metterò una foto e potrete indovinare dove è stata scattata.
Per il vincitore non ci sarà soltanto la gloria, ma anche la possibilità di scegliere un argomento per uno dei miei prossimi articoli e di risolvere (spero) così un dubbio biologico che aveva da tempo.
Per farvi venire più curiosità posso aggiungere che il soggetto della foto, ovviamente un vigneto per restare in tema, sarà l'oggetto del post della prossima settimana.
A parità di risposta esatta mi toccherà rispondere ai dubbi di tutti coloro che vinceranno, anche se, in questo caso, vi chiedo fin d'ora di essere pazienti e di venirmi un po' incontro con le tempistiche.
Non è per lusingarvi, ma so che siete dei bravi detective!
Vi aspetto nei commenti al blog o, se preferite, su Facebook, Google+ o Twitter.

Dove sarà?

mercoledì 28 maggio 2014

Rifiuto Biologico e I love Marche - Guest post su Lago di Pilato e Chirocefalo di Marchesoni

Questa settimana, amici lettori, Rifiuto Biologico è stato ospitato da un interessantissimo blog che parla di una terra tutta da scoprire: le Marche. L'unica regione plurale, dopo che anche gli Abruzzi, vedendo come buttava, sono tornati ad essere singolari.
Anche qui ci sono stati i terremoti, le alluvioni e le bombe d'acqua, ma almeno Ligabue e Jovanotti con il concertone ce li siamo risparmiati. 
I love Marche è un blog che offre moltissimi spunti per itinerari in questa stupenda regione, dove, se vuoi il mare e la montagna nello stesso giorno, hai solo bisogno di prendere casa in collina. 
Date un'occhiata al sito se volete approfondire le vostre conoscenze del territorio e magari programmare una vacanza o solo una "fermata" mentre scendete più a Sud, come hanno fatto la mia amica Chiara e suo marito l'anno scorso. 
Ce n'è per tutti i gusti, giuro, e poi ci sono le olive ascolane ed il ciauscolo!

Ad ogni modo, questa settimana Rifiuto Biologico ed I love Marche hanno collaborato per mettere su un post sul Lago di Pilato, situato sugli Appennini, vicino al confine umbro, ed i tanti misteri che aleggiano su questo luogo. Potete leggere il testo completo proprio qui

Dai, non fatevi pregare, scoprite le Marche, anche se sono al plurale; adesso abbiamo anche cambiato testimonial, non ci sono più le Winx con le scarpe ortopediche nè Dustin Hoffman che inciampa sull'Infinito di Giacomo: c'è Neri Marcoré!

giovedì 22 maggio 2014

Vivi, morti o X (men)

Ormai in molti conoscono gli X-Men, volenti o nolenti.
In più, ci si divide sostanzialmente in tre gruppi: quelli che sanno tutto sia dei film che dei fumetti da cui sono stati tratti, quelli che vedono dieci secondi di trailer e cambiano canale, quelli che guardano i film, li trovano belli, ma fermati lì.
Poi ci sono quelle che ti dicono “Io degli X-Men conosco Wolverine”, chissà perché.
Personalmente non sono una fan dei fumetti, anche se, grazie ai film ed alla passione di alcune persone a me molto vicine, sono rimasta piacevolmente colpita da quel che giace al fondo di questa saga. Siccome in molti si stanno preparando ad invadere i cinema per l'arrivo, proprio oggi, del nuovo capitolo della serie, mi sembrava opportuno scrivere qualcosina, anche per le sventurate (di solito sono le fidanzate, in questo caso) che saranno trascinate senza pietà a godersi ore di combattimenti, lettura nel pensiero ed uno strano caschetto.
Per fortuna che c'è Wolverine, sul quale ci dilungheremo in un post successivo.
Innanzitutto gli X-Men si chiamano così perché tutti quanti possiedono il Gene X, una mutazione a carico del loro genoma che conferisce loro caratteristiche straordinarie. Solo per fare un esempio: capacità di telepatia o telecinesi, possibilità di manipolare gli elementi atmosferici o i campi magnetici, resistenza fisica portata all'impossibile, capacità di mutarsi completamente in qualsiasi altra persona.
La caratteristica che mi porta ad apprezzare particolarmente questo gruppo di personaggi è che, a differenza di una miriade di altri loro colleghi, i loro poteri non sono derivati da un incidente straordinario, come è avvenuto per Spiderman o per Hulk, ma da un avvenimento naturale, sebbene ovviamente portato nel campo della fantascienza.

Il primo albo di fumetti sugli X-Men fu pubblicato nel 1963 da Marvel Comics. In esso i mutanti erano solo un piccolo gruppo di adolescenti, non accettati dal mondo ed in preda a cambiamenti profondi di psiche e corpo. Problemi comunque più pressanti nel loro caso rispetto alla normale acne o ad altezze sproporzionate di ragazzini sottilissimi dal discutibile odore. Quando non sei né carne né pesce, insomma, anche se per gli X-Men c'era qualche problemino in più.
La tematica del fumetto scava, tuttavia, ancor più nel profondo. Al centro ci sono la diversità del mutante, essere mostruoso ed incompreso in un mondo di umani e perciò considerato pericoloso. Il vero problema, tuttavia, è che di mutanti non ce ne sono proprio pochissimi nel mondo, quindi gli umani “normali” tentano di arginare il fenomeno con sperimentazioni su sieri che possono far “guarire” dal Gene X o semplicemente mettendo in atto la volontà di registrare i mutanti.
Un primo passo verso la discriminazione e l'odio razziale, insomma.
In tutto ciò gli stessi X-Men si dividono in due fazioni; da un lato Charles Xavier, potente telepate, fiducioso in un utopico mondo in cui mutanti ed umani coesistono, dall'altro Magneto, in grado di manipolare metallo e campi magnetici a suo piacimento, ostile agli umani e sostenitore della superiorità dei mutanti.
Una storia affascinante e ricca di sfaccettature, probabilmente per questo motivo il rilancio sul grande schermo ha rivalutato anche le sorti del fumetto.

La mutazione è da sempre stata la base dell'evoluzione poiché determina la variabilità genetica che possiamo individuare con un unico sguardo alle persone intorno a noi.
Di che cosa si tratta? Si definisce come un cambiamento permanente ed ereditabile del patrimonio genetico e può avvenire in qualsiasi organismo. Si tratta di un processo lento e casuale, che può risultare in un cambiamento positivo, negativo o indifferente per l'individuo mutato.
Un esempio che mi è sempre sembrato molto esplicativo è il caso della Biston betularia, una falena che si mimetizzava su tronchi di albero ricoperti da licheni di colore chiaro, dato che anch'essa aveva ali chiare che le permettevano di passare inosservata ai predatori.

Biston betularia morpha typica
Foto di Olaf Leillingen

Con l'avvento della rivoluzione industriale in Inghilterra, molti di questi licheni scomparvero ed il tronco degli alberi annerì per l'inquinamento ed i fumi industriali. Le falene che, per una mutazione, nascevano con le ali scure avevano un vantaggio notevole nei confronti di quelle con le ali chiare e sicuramente venivano predate in misura molto minore. 

Biston betularia betularia morpha carbonaria
Foto di Olaf Leillingen

Dopo un certo periodo di tempo la popolazione dalle ali scure soppiantò completamente quella delle sorelle con ali biancastre. Il fenomeno fu chiamato “melanismo industriale” e fu spiegato come una mutazione spontanea del gene responsabile del colore delle ali accompagnato da una selezione naturale sfavorevole per le falene che in un primo tempo erano il gruppo predominante, quelle dalle ali chiare.
Le mutazioni possono essere spontanee o indotte da agenti esterni, come sostanze chimiche, ad esempio; senza scomodare i rifiuti tossici, basti pensare alle sostanze contenute nello scarico dei motori, nelle sigarette o nella parte carbonizzata dei cibi. Anche i raggi ultravioletti sono mutageni
La mutazione può interessare una piccolissima parte del genoma, un intero gene o una zona ancora più grande del nostro corredo genetico.
Se per l'organismo esiste la capacità di mutare, esiste anche l'opposto, cioè un meccanismo di riparazione del genoma mutato. E' come una bilancia: se il tasso di riparazione è alto, quello di mutazione è ridotto e viceversa. I vari meccanismi di riparazione, tuttavia, differiscono da più semplici a più complessi, anche se non sempre quelli più complessi corrispondono ad un maggior livello evolutivo. Gli umani, ad esempio, hanno in comune alcuni di questi meccanismi con le mosche.
Avremo modo di approfondire alcuni interessanti casi di mutazione in altri post, nel frattempo vi lascio con una battuta del film X-Men, che riporta nel mondo della finzione le basi scientifiche di cui abbiamo parlato oggi insieme.

La mutazione è la chiave della nostra evoluzione, ci ha consentito di evolverci da organismi monocellulari a specie dominante sul pianeta. Questo processo è lento e normalmente richiede migliaia e migliaia di anni, ma ogni centinaio di millenni l'evoluzione fa un balzo in avanti.

- Charles Xavier - 





giovedì 1 maggio 2014

Angelo, i crostacei e gli Indiani d'America

Può piacere o non piacere, comunque Angelo Branduardi rimane uno dei cantanti italiani più amati degli ultimi anni. La sua personalità creativa ed originale ed il suo talento musicale sono scarsamente ignorabili.
Inoltre, a me piace molto, nel caso non fosse chiaro fino a questo momento.
Forse saranno i capelli che mi ispirano simpatia, perché da un certo punto di vista sono simili ai miei, tuttavia i suoi ritmi un po' strani e le sue canzoni, se vogliamo un po' demodé, fanno da sempre parte del mio repertorio culturale.
Per rispondere alla domanda che si sarà affacciata alla vostra mente, non sono impazzita e non voglio annoiarvi con i miei gusti musicali. Vorrei parlarvi della Daphnia magna.

Iniziamo dalle basi: che cos'è l'ecotossicologia?
Essa è stata definita da Truhat nel 1977 come la branca della tossicologia che si occupa dello studio degli effetti tossici causati da inquinanti naturali o sintetici sui costituenti degli ecosistemi animali, vegetali o microbici.
L'ecotossicologia quantifica gli effetti dei fattori di stress sulle popolazioni naturali, comunità o ecosistemi. Quello che si fa con gli esami di laboratorio, in pratica, è il monitoraggio del grado di inquinamento, in modo che si riesca a predire, per quanto possibile, i suoi effetti e si riescano a prendere le contromisure necessarie. Queste analisi vengono svolte con l'aiuto di bioindicatori, organismi che possiedono determinate caratteristiche e sono sensibili a particolari sostanze inquinanti.
La Daphnia magna è un piccolissimo crostaceo usato nei test di tossicità delle acque, poiché estremamente sensibile all'inquinamento da metalli pesanti (piombo, cadmio, zinco, rame ecc.).
Il test di tossicità acuta viene effettuato su concentrazioni differenti di inquinante, così da determinare gli effetti tossici sul crostaceo in presenza di quantità diverse di metalli pesanti.
I neonati di Daphnia vengono messi nel campione e, dopo un periodo di tempo prestabilito (24h o 48h), si osserva quanti ne sono sopravvissuti.
Il test di tossicità cronica, invece, ha una durata di 21 giorni. I presupposti sono gli stessi, la differenza sta nel fatto che, al termine del periodo, viene rilevato il numero totale di neonati vivi prodotti da ciascun progenitore vivo alla fine del test.

  
30 secondi di Daphnia magna

L'ecotossicologia sta prendendo sempre più campo nelle analisi di monitoraggio di vari tipi di acque, dagli scarichi alla balneazione, perciò è importante sapere che questi piccoli crostacei sono di fondamentale aiuto non solo per l'uomo, ma anche per la loro stessa specie. Infatti fanno in modo che sia possibile prendere delle misure di salvaguardia da questi inquinanti, che salveranno non solo il genere Daphnia, ma anche molti organismi che vivono nel loro stesso habitat. Ad esempio, molti pesci si cibano di questi piccoli crostacei e si è notato che la morte di questi ultimi nei corsi d'acqua inquinati ha portato anche alla scomparsa di alcune specie ittiche.
La Daphnia è, infatti, una delle basi della catena alimentare delle specie di acqua dolce.

Che cosa c'entra questo post con Branduardi? 
Il nome comune della Daphnia magna è “pulce d'acqua” ed il menestrello prese l'idea per la sua canzone da un'antica leggenda dei nativi d'America, narrata da Jaime de Angulo nel libro “Racconti indiani”.
Si narrava, tra le tribù californiane di pellerossa, che durante la notte la propria ombra si staccasse dal corpo e se ne andasse a vagare per i dintorni. All'alba la prima cosa da fare era cantare per farla ritornare, poiché senza un'ombra non è possibile vivere, ci si ammala e si muore poco dopo.
Il racconto di Jaime De Angulo narra le vicende di una famiglia di animali – uomini, personaggi che hanno un po' degli uni e un po' degli altri, che compie un lungo viaggio. Durante il tragitto uno degli adulti si ammala e, dopo aver consultato una sciamana, capisce che la sua malattia deriva dal fatto che la sua ombra gli è stata rubata appunto da una pulce d'acqua.
Il motivo? Aver riso di lei mentre volteggiava nell'acqua, anche se l'uomo lo aveva fatto senza alcuna volontà derisoria, ma semplicemente perché il piccolo animale lo aveva divertito. Tuttavia, la moglie del protagonista dice, giustamente: “Tu cosa diresti se uno straniero venisse al tuo campo, ti fissasse a lungo e poi iniziasse a ridere di te tenendosi i fianchi?”.
Il mattino seguente la sciamana dà una soluzione per riprendersi la propria ombra: andare nel posto in cui quest'ultima è stata rubata e cantare una canzone, che farà salire la pulce d'acqua in superficie. A quel punto bisognerà chiedere indietro all'esserino la propria ombra in modo fermo e asciutto e poi andarsene senza discutere con la pulce.
Inutile dire che la strategia funzionò e l'ombra fu restituita.
Leggendo il resto del libro, gli altri animali nominati nel testo, cioè la serpe verde e la mosca d'autunno, sembrano essere presenti in alcuni canti sciamanici citati, pieni di potere magico e curativo. E' possibile che si tratti di riferimenti alle tante creature presenti nel folklore dei nativi americani.
Attenzione, quindi, a deridere i piccoli esserini intorno a voi … se sono permalosi, c'è la possibilità che vi facciano un brutto scherzo!


Angelo Branduardi - La pulce d'acqua

giovedì 10 aprile 2014

Il piccolo drago di Medina

Quest'oggi parleremo di cose disgustose e curiose insieme, ma state tranquilli, cercherò di utilizzare un linguaggio non troppo cruento, così da farvi assaporare le novità senza dover cliccare sulla crocettina in alto a destra il più presto possibile.
Nel tempo ho sviluppato un certo tatto, dovendo spesso spiegare ad una mia parente molto prossima cose che lei trovava orripilanti. Siamo passati da una prima fase, in cui urlava e si copriva le orecchie scappando, ad una più recente in cui mi stava a sentire dicendo “Che schifo!”.
Passi da gigante. Non vi dirò, tuttavia, quanti anni sono trascorsi tra i vari stadi.

La storia comincia con la distinzione tra un caduceo e un bastone di Asclepio.
 
Caduceo
Autore: Pulmonological


Spesso c'è molta confusione tra i due: il primo è il bastone della divinità greca Hermes, in cima ha delle ali ed attorno vi sono attorcigliati due serpenti. Hermes (Mercurio per i romani), il messaggero degli dei, era anche, tra le altre mansioni, il protettore di mercanti, pastori, scommettitori, bugiardi e ladri. Un gruppo abbastanza eterogeneo … o forse non troppo? [ndA: qui ci starebbe bene un occhiolino]
I due serpenti sono stati interpretati in varie maniere nella mitologia. Per una breve spiegazione basta uno sguardo a Wikipedia.
Ad ogni modo, per estensione il caduceo è simbolo del commercio e della negoziazione, i cui ideali dovrebbero essere la reciprocità e lo scambio equo. In modo del tutto erroneo esso viene spesso associato alla professione medica. Sarebbe sbagliato anche associarlo alle insegne delle farmacie, ma questa forse è un'altra storia.

Bastone di Asclepio
Autore: Heiland

La confusione nasce dall'esistenza del bastone di Asclepio che attorno ha un solo “serpente” e non ha le alette in cima. Asclepio era una divinità greca associata alle arti mediche i cui attributi erano appunto un bastone e dei serpenti, rappresentazione di quelli non velenosi che venivano utilizzati nei rituali di cura officiati nei templi dedicati a questo dio. Quello del bastone di Asclepio, tuttavia, non è un serpente, ma un nematode, un sottile vermiciattolone parassita dell'uomo, chiamato Dracunculus medinensis, piccolo drago di Medina.
In un passato che si prolunga fino al presente prossimo, il parassitismo di questo verme era una vera e propria piaga per gran parte del Medio Oriente. Infatti, dall'alta incidenza nella città di Medina proviene una parte del suo nome. Il problema esisteva anche in India, Pakistan ed Africa e a causa dell'altrettanto alta frequenza in queste zone uno dei tanti nomi del parassita è "Verme della Guinea".
La contaminazione, infatti, avveniva attraverso l'acqua non trattata, in cui si ritrovavano alcuni microscopici crostacei parassitati dal verme, i copepodi.
Il Dracunculus medinensis è un nematode, un organismo appunto vermiforme, ma molto diverso dal lombrico che di solito inseriamo nello stesso gruppo. Esso ha un corpo sottile e le sue forme larvali sono liberate, alla morte del crostaceo, nell'apparato digerente dell'uomo che ha ingerito acqua e copepodi. Dopo l'accoppiamento le femmine migrano nel tessuto sottocutaneo della parte inferiore del corpo umano e producono delle vesciche. Per diminuire il forte bruciore non è difficile pensare a mettere per un po' il piede lesionato nell'acqua. Esattamente quello che vuole la vermetta furbacchiona, la quale emerge dalla vescichetta e libera nell'acqua le larve al primo stadio di sviluppo. Queste ultime vengono mangiate dai copepodi e subiscono due mute all'interno del crostaceo, dopodichè il ciclo può ricominciare.
Per liberare i contagiati dalla permanenza della femmina di Dracunculus nel sottocutaneo, tuttavia, non esistendo un trattamento chemioterapico adatto, fin dall'antichità si tentava pian piano di far uscire il nematode dalla vescica e lo si invitava ad arrotolarsi su di un bastoncino. Il trattamento poteva durare giorni o settimane, ma non si doveva assolutamente tentare di mettere fretta al verme, ad esempio cercando di tirarlo, poiché esso poteva spezzarsi e rimanere in parte sottopelle, dove avrebbe creato ovviamente un'infezione difficile da debellare.

Nel tempo, per salvare milioni di persone dal contagio, numerose organizzazioni sanitarie si sono impegnate per creare la migliore informazione possibile sulla prevenzione di questo fenomeno, sensibilizzando la popolazione riguardo al consumo di acqua filtrata. Molti paesi hanno così visto diminuire il numero dei contagiati.
Ecco spiegato, dunque, cosa rappresenta il bastone di Asclepio.

Ora, un po' di buona musica e di ironia mentre faccio una telefonata per vedere se anche questa volta sono riuscita a non farla scappare con le mani sulle orecchie.


"I've got you under my skin"
Frank Sinatra

giovedì 27 marzo 2014

Forza e coraggio lo scarafaggio!

La prima volta che vidi uno scarafaggio in vita mia fu a scuola. Non era morto e conservato sotto formalina per scopi didattici, ma si aggirava leggiadro tra gli zaini ed i pioli dei banchi nell'aula semivuota in un mattino invernale. Stranamente non fu un sentimento di schifo quello che mi sorprese, ma di curiosità. In molti parlavano di questi animaletti orridi con tantissime zampette, anche Teo Robinson aveva un amico che si chiamava Scarafaggio ne “I Robinson” e vederlo dal vivo era un evento dal mio punto di vista. E' naturale che mi feci qualche domanda, dato che il nostro primo incontro fu in un edificio scolastico piuttosto che in una discarica, tuttavia con il senno di poi ho chiare molte più cose.
Ad esempio, durante il mio primo trasloco, nella penombra del salotto vidi uno scarafaggio attraversare il parquet scuro e nascondersi sotto un mucchio di giornali. Alle mie urla e vibrazioni, rispose tornando indietro verso gli scatoloni del trasloco. Finì male per lui, ma di sicuro non per merito mio, dato che l'idea di schiacciare un insettone di quelle dimensioni mi dava il voltastomaco. In seguito una mattina, scendendo dal letto, ne trovai uno agonizzante vicino alle mie ciabatte (nel frattempo avevo piazzato delle trappole). Di nuovo seguì il momento di caccia, con una me stessa urlante sul letto.
La mia casa è sporca? Non direi, date le mie innate manie igieniche. E' stata costruita di recente? No, forse c'entra qualcosa. Finirò come il vecchietto cattivo di Creepshow (evito il link perchè è abbastanza disgustoso)? Non lo so, ma comunque da parecchio tempo ho abbracciato l'idea di conoscere meglio il mio “nemico” e tentare in questo modo di capire quale sia la battaglia personale che sta combattendo, al fine di comprendere meglio la sua posizione. Inutile dirlo, tendo ad antropomorfizzare qualsiasi cosa, ormai lo avrete capito.
Ho introdotto l'argomento scarafaggi perché qualche tempo fa ho letto un trafiletto interessante su un settimanale. Aveva per argomento gli scarafaggi di New York e vi era scritto che quasi in ogni quartiere della Grande Mela esiste un particolare gruppo di questi insetti, arrivato da tempo immemore e lì ormai diventato stanziale. Con lui, ovviamente, anche il suo DNA si trova in quel preciso quartiere e, attraverso un ambizioso progetto di DNA Barcoding, la Rockefeller University sta cercando di “etichettare” i vari gruppi, cioè di dividere i vari tipi di scarafaggi in abitanti dell' Upper East Side, Brooklin, East Side e così via, a scopo tassonomico.
Il DNA Barcoding (barcode significa codice a barre in inglese) è un metodo di classificazione degli organismi eucarioti basato sul riconoscimento di un breve marcatore genetico, una sequenza di DNA di poche basi, per identificare un organismo appartenente ad una specie definita. A differenza di altri metodi, il DNA barcoding non è usato per cercare relazioni tra organismi, ma per collocare un campione ignoto all'interno di una classificazione già esistente. Rimane comunque ovvio che, nel caso l'organismo ignoto non possa essere inscritto in nessun gruppo già esistente, si potrà parlare di una nuova specie.
Per quanto riguarda gli animali si è scelto di prendere come barcode una parte del gene che codifica per la citocromo ossidasi mitocondriale. Prima e più importante caratteristica, il DNA prescelto per svolgere questo ruolo deve avere una grande variabilità tra le specie ed una scarsa variabilità all'interno della specie.
Sebbene il metodo non sia stato accolto da tutta la comunità scientifica con lo stesso entusiasmo e siano stati avanzati numerosi dubbi sulla sua efficacia, esistono diversi progetti scientifici fondati proprio sul DNA Barcoding.
Secondo i dati della Rockefeller Univesity, nell' Upper East Side sembra prevalere il German Cockroach, arrivato lì con le prime ondate migratorie europee, mentre fuori Manhattan è diffuso l'American Cockroach, probabilmente giunto dall'Africa con altre migrazioni, quelle degli schiavi.
Visitando il sito apposito (National Cockroach Project) ogni cittadino di New York può contribuire all'invio di campioni (morti, come c'è scritto espressamente; chissà, magari c'era gente che li mandava vivi nella busta chiusa). Che cosa si ottiene in cambio? Tra le altre cose, come espressamente citato nella home page: a cool topic to talk about with friends, un argomento figo di cui parlare con gli amici.
Già, magari davanti ad una pizza.
Anche se io non ricordo molte persone entusiaste quando, durante una cena, mi metto a spiegare le terribili cose che possono nascondersi nella carne cruda; figuriamoci con gli insetti cosa succederebbe.
Quali sono gli interrogativi che giacciono al fondo di questo progetto? Studiare l'evoluzione ed i pattern migratori degli scarafaggi attraverso il loro DNA, scoprirne magari nuove specie e, perché no, sensibilizzare la popolazione.
A dispetto di quello che si può pensare, solo 4 o 5 specie di scarafaggio sono effettivamente dannose per l'uomo perché contaminano le derrate alimentari stoccate nei magazzini. In realtà l'insetto è solo un mezzo attraverso il quale l'uomo può subire una contaminazione indiretta, dato che esso frequenta spesso posti abbastanza discutibili, come gli scarichi fognari ed i cassonetti, e poi entra in casa con il suo vestitino di batteri, virus, epatite A e così via.
Di per sé, tuttavia, gli scarafaggi sono origine di fenomeni allergici, come l'asma, nella specie umana.
Molti entomologi sono impressionati dalla capacità evolutiva del genoma degli scarafaggi. Da sempre si sa che sono difficili da eradicare una volta che si sono installati in casa, tuttavia stanno emergendo nuovi individui capaci di evitare le trappole fondate su miscele contenenti glucosio come esca.
Dopo più di dieci anni dall'uscita del film, ho finalmente capito questa scena di "Men In Black" in cui un gigantesco alieno – scarafaggio si impossessa del corpo di un contadino ed entrando in casa chiede alla moglie un bicchiere di acqua con tantissimo zucchero.




Per concludere, il titolo di questo post ricorda una frase di incoraggiamento coniata da un mio compagno di classe, il quale amava ripeterla come posseduto da una forza soprannaturale all'interrogato di turno. Nessuno pensava che un fondo di verità ci fosse davvero, dato che nel corso degli anni lo scarafaggio è stato preso come esempio di resilienza in campo entomologico (nda: dal latino resiliens -entis, part. pres. di resilire, "rimbalzare" - in ecologia e biologia è la capacità di un materiale di autoripararsi dopo un danno o di una comunità (o sistema ecologico) di ritornare al suo stato iniziale dopo essere stata sottoposta ad una perturbazione che l'ha allontanata da quello stato. In psicologia, la resilienza viene vista come la capacità dell'uomo di affrontare le avversità della vita, di superarle e di uscirne rinforzato e addirittura trasformato positivamente1)
Lo scarafaggio, capace di resistere senza cibo per tre mesi e senza acqua per un mese, resistente al freddo in alcuni casi e certe volte quasi immortale dopo essere stato schiacciato, è stato citato persino da Madonna in una sua dichiarazione:
“I am a survivor. I am like a cockroach, you just can't get rid of me” - “Sono una che sopravvive. Sono come uno scarafaggio. Semplicemente, non ci si può liberare di me”.


venerdì 21 marzo 2014

Polipo e polpo per me pari (non) sono

Venire a cena con me non è mai stata la più gettonata delle circostanze per molti, per questo ancora mi stupisco di come alcuni riescano a sopportare uno dei miei passatempi preferiti: trovare gli errori grammaticali e non solo nel menù. Non sono così antipatica da puntualizzare la cosa con il cameriere, né con i miei commensali, a parte alcuni selezionati e “malati” come me, con i quali passo quasi la totalità delle serate.
Il più delle volte rido da sola, tra me e me, quando qualche errore compare, tuttavia ce n'è uno in particolare che mi infastidisce, ma che non viene compreso da molti.

Il polipo NON è il polpo. E viceversa.

Perchè? Sono due animali diversi, appartengono a due gruppi tassonomici completamente differenti e, soprattutto, malgrado la derivazione del nome dal greco sia la stessa, una sola vocale fa una grande differenza tra i due.
Ci tengo a puntualizzare che non ho riscontrato il problema solo in ristoranti appartenenti a stranieri, magari poco familiari con la lingua italiana, ma anche in moltissimi luoghi di ristoro italiani (e che si vantano di esserlo). Per dirne una, il polipo con le patate è un piatto quasi fisso come antipasto in molti ristoranti di gran lusso, anche se quello che vi servono è un polpo con patate.
La distinzione principale che va fatta è già quella che vi fa fare bella figura con gli amici: il polpo è un mollusco, il polipo è uno cnidario, cioè è della stessa famigliola delle meduse.
Il polipo, ad essere ancora più precisi, può essere uno degli stadi di sviluppo di alcuni tipi di medusa, oppure può rimanere polipo tutta la vita, dipende dal gruppo a cui appartiene.
Ad esempio, nella classe degli Antozoi, il polipo mantiene per tutta la vita la sua forma cilindrica con tentacoli apicali; è definito organismo bentonico sessile, cioè vive a stretto contatto con il substrato e non si sposta. Volete degli esempi? Gli anemoni di mare (sì, anche quella dove viveva Nemo nel cartone animato) oppure i coralli. La barriera corallina in realtà è un gigantesco condominio in cui vivono insieme degli organismi multicellulari e geneticamente identici grandi ognuno pochi millimetri. Ogni polipo è in grado di secernere una “placca” basale calcarea in cui si ritira nel caso venga “infastidito”. Negli anni, le placche formate dai vari polipi di generazione in generazione si sono accumulate l'una sull'altra ed hanno dato luogo alla barriera corallina.

Polypen einer Gorgonie
Polipi

Il polpo, invece, è un mollusco cefalopode. A questo punto mi sembra chiaro che le dimensioni non siano le stesse del polipo: un polpo può arrivare a misurare 25 centimetri solamente nel manto e in media dai 40 ai 100 centimetri per quel che riguarda i tentacoli.
Per dire, in “Alla ricerca di Nemo” un polpo era compagno di classe del pesciolino e parlava anche!
Non per fare torto ai piccoli polipi, ma il polpo, anche detto piovra, così ci togliamo ogni dubbio, è considerato uno degli invertebrati più intelligenti; ha dimostrato in molti test di saper apprendere e riconoscere per associazione, anche osservando altri polpi, fatto piuttosto strano dato che è un animale solitario e schivo. Altri test dimostrano che se date al polpo un barattolo chiuso con dentro una preda, lui riuscirà ad aprirlo.
Stupefacente se penso che certe volte io non riesco ad aprire un barattolo di sottaceti a mani nude.
Quello che mangiamo con le patate e che ha i tentacoli con le ventose, perciò, è un polpo o una piovra: facciamocene una ragione e correggiamo i menù.
Che diventi virale la distinzione tra i due!

Octopus vulgaris EL16p
Polpo o piovra