venerdì 26 settembre 2014

Foglie gialle giù
Equinozio d'autunno

Benvenuto autunno!
Quest'anno l'equinozio è avvenuto alle 2.29 del mattino del 23 settembre e così, anche se ci siamo a malapena accorti dell'estate, andiamo già verso il freddo (vedremo quanto) inverno. Siamo, tuttavia, entrati in una stagione spettacolare, a modo suo. Se frequentate parchi, giardini, campagne, non può sfuggirvi lo spettacolo delle foglie che stanno iniziando ad assumere i colori più caldi dell'anno. Sembra quasi di ricordare il calore dell'estate attraverso il giallo, l'arancione ed il rosso scuro delle foglie di molti alberi.
Molte madri, poi, saranno presto coinvolte nel sadico giuoco delle maestre, le quali daranno ai figli la temuta consegna di raccogliere almeno una ventina di foglie di alberi diversi per attaccarle poi in quello che potremmo definire un “fogliario”. A questo punto, poi, non sarà inusuale vedere folle di genitori prendere d'assalto parchi e giardini per accaparrarsi le ambite foglie, a costo anche di iniziare un piccolo contrabbando tra i genitori che vivono in città e quelli che invece stanno in campagna (e che, naturalmente, di solito hanno occasione di frugare in una maggior quantità di giardini). Alla fine, di solito, tutti i bambini della stessa classe hanno le stesse foglie appuntate sui loro quaderni, vuoi per il mercato nero, vuoi perché i genitori hanno vagato raminghi negli stessi posti.

Dopo tanti anni fuori dalla scuola, mi sono posta un interrogativo.

Perché le foglie in autunno ingialliscono e cadono?

Partiamo dalla pianta: come funziona, a grandi linee?

Tutti sappiamo che le piante in generale svolgono la fotosintesi clorofilliana, cioè trasformano l'acqua e l'anidride carbonica in carboidrati ed ossigeno.
L'ossigeno viene rilasciato nell'ambiente circostante, i carboidrati vengono portati agli organi di immagazzinamento della pianta: il tronco, i rami, le radici. Saranno queste riserve a mantenere in vita la pianta durante l'inverno e promuovere l'inizio della crescita l'anno successivo.
La fotosintesi è un processo chimico svolto per la maggior parte nelle foglie, dove si trovano particolari organelli, chiamati cloroplasti, che contengono la clorofilla.
Quest'ultima è una molecola capace di catturare la luce e, per farla semplice, trasferire l'energia da essa derivante ad alcuni sistemi che effettuano la vera e propria fotosintesi.
Per questo motivo si dice che quest'ultimo processo avviene solo in presenza di luce.
Le foglie sono verdi perché ricchissime di clorofilla, immagazzinata nei cloroplasti.
la fase di crescita delle piante, cioè la primavera e l'estate, la clorofilla viene sostituita continuamente nelle foglie, dato che essa si disgrega e scompare ad un ritmo molto alto.
In autunno le notti iniziano a farsi più lunghe e la pianta si prepara alla stagione fredda sviluppando, alla base di ogni foglia, uno strato di sughero che pian piano separa il picciolo dal ramo. Il tentativo della pianta di disfarsi delle foglie ha una finalità ben precisa: proprio come un animale che va in letargo, anche la pianta in inverno deve rallentare il suo metabolismo e lo fa traspirando meno. Poichè gli organi per eccellenza della traspirazione sono le foglie, la pianta le perde, lasciando il compito a tronco e rami e diminuendo in questo modo anche il richiamo di acqua dalle radici.
Lo strato di sughero, infatti, blocca il flusso di nutrienti che nella bella stagione sono stati inviati alla foglia. Oltre ai nutrienti, essa ha ricevuto nello stesso periodo anche una grande quantità di clorofilla, dato che quest'ultima deve essere continuamente sostituita, man mano che la foglia prende parte ai processi di fotosintesi. Infatti, l'esposizione alla luce deteriora lentamente le molecole di clorofilla, proprio come un foglio colorato perde le sue tinte, se è esposto al sole.
Dunque, con l'allungarsi delle notti ed il volgere delle stagioni verso il freddo, la colorazione verde viene sostituita da colori che erano presenti anche prima, ma venivano mascherati dall'alta concentrazione di clorofilla presente. Ad esempio, inizieremo a vedere il giallo e l'arancione derivanti dai caroteni e dalle xantofille. I pigmenti definiti antocianine di solito non sono presenti nella bella stagione, ma vengono “costruiti” a partire dai carboidrati che restano intrappolati nella foglia. Lo strato di sughero alla base del picciolo non permette il deflusso verso la pianta di zuccheri ed amido.
Gli scienziati ormai conoscono le motivazioni per il cambiamento di colore del fogliame in autunno. Xantofille e carotenoidi possiedono ancora la capacità, seppur minima rispetto alla clorofilla, di catturare l'energia della luce solare. Quello che ancora rimane poco chiaro è il motivo per cui la pianta dovrebbe lasciare nelle foglie così tanti carboidrati prodotti dalla fotosintesi, permettendo la formazione di antocianine.
Ad autunno inoltrato il sughero che separa la foglia dalla pianta diventa più spesso, fino al momento in cui la foglia si stacca dalla pianta e cade a terra, per la gioia dei genitori e del “fogliario” dei bambini.


venerdì 19 settembre 2014

Una storia di fantasmi ed avocado

Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un post del sito Brainpickings riguardante un libro, scritto da Connie Barlow, intitolato “The ghosts of evolution”.


Non so ancora dare un'opinione completa su tutto lo scritto, tuttavia ho letto con interesse, forse anche con il solito scetticismo, le prime pagine e sono rimasta colpita da quello che l'autrice racconta riguardo l'avocado.
Questo frutto, proveniente dall'America Centrale, proviene da un albero che è stato chiamato, nella nomenclatura scientifica, Persea americana. Quasi tutti almeno una volta nella vita abbiamo guardato al supermercato questi frutti piriformi, di un verde brillante e dalla buccia lucida e liscia. In pochi l'abbiamo portato a casa per farne qualcosa in cucina. Tuttavia, superato lo scoglio dell'acquisto, la sorpresa che ci aspetta dentro all'avocado è un unico grande seme scuro o, se ci riflettete bene, un enorme seme. Lì dentro la pianta ha nascosto il germe del nuovo albero ed anche tutta una serie di risorse affinché, nel caso il frutto cadesse a terra e non avesse modo di germinare, esso possa almeno contare sulle riserve immagazzinate nel seme stesso anche fino ad un anno intero.


Tutto ciò è molto commovente da parte di mamma avocado, se però facciamo quattro passi nella botanica, ci accorgiamo subito che c'è qualcosa che non va.
Il proposito di tutte le piante è produrre moltissimi semi che poi verranno dispersi in tanti modi: uno fra tutti, gli animali che mangeranno il frutto della pianta, lo digeriranno e faranno funzionare il loro intestino a distanza dalla pianta madre. Un altro albero crescerà lì dove l'animale ha lasciato i suoi escrementi.
Ora ditemi voi, quale animale vivente oggi può ingollare tutto intero il seme dell'avocado? Diciamo tutto intero perché la pianta ha evoluto un accorgimento per cui, se il seme viene frantumato, si liberano delle tossine che danno un cattivo sapore. Mamma avocado fa le cose per bene e, per i motivi esposti sopra, non permette che il seme possa essere rotto, mettendo a repentaglio le risorse fornite all'embrione per la sua delicata crescita.
La risposta è, allo stesso tempo, semplice ed affascinante.
L'avocado è nato e cresciuto nel Pleistocene ed ha evoluto le fattezze del suo frutto per irretire la megafauna vivente nella stessa epoca, attirata dalla sua polpa brillante e gustosa e perfettamente in grado di ingoiare un seme di quelle proporzioni senza soffocare e senza provare nemmeno a frantumarlo. Il loro esofago ed in generale il loro apparato digerente erano del tutto capaci di digerire la polpa e far uscire alla fine del “tubo” il seme, insieme a tutto il risultato della digestione, magari a qualche chilometro di distanza. La volontà dell'albero di avocado di propagare la propria progenie era fatta.
Per megafauna intendiamo, per fare lo stesso esempio del libro di cui parlavo all'inizio, dei Gomfoteridi, animali simili agli odierni elefanti, estinti ormai dalla fine del Pleistocene.



Anche i bradipi terrestri (ground sloths) erano tra coloro che si cibavano di avocado senza problemi, ma anch'essi sono ormai estinti.


Facendo due conti, quindi, l'autrice Barlow, sulla scia degli studi proposti dal biologo Daniel H. Janzen, definisce casi come quello dell'avocado degli “anacronismi evoluzionistici”: una pianta ha evoluto le proprie caratteristiche per coniugarle con quelle dei consumatori del frutto, in questo caso i consumatori del Pleistocene. Purtroppo, gli animali in grado di disperdere il loro seme lontano non esistono più da tempo.
Per fortuna dell'avocado, tuttavia, la stessa polpa del frutto ha richiamato un gran numero di consumatori nel tempo, dato il suo aspetto succulento ed i suoi interessanti valori nutrizionali e, quindi, ancora oggi possiamo mangiare la guacamole. 

“Un avocado è fatto per un mondo che non esiste più. Il frutto di questa pianta è un anacronismo ecologico.
I suoi partner mancanti sono i fantasmi dell'evoluzione.”
- Connie Barlow -

venerdì 12 settembre 2014

Ehi! Un topo! Ma no, è un' arvicola!

Cari lettori, causa contrattempo tecnico, questa settimana Rifiuto Biologico vi regala solo un breve, ma importante, aggiornamento.
Per la prima volta è stato avvistato sulla piana del lago di Pilato, all'interno del Parco dei Monti Sibillini, un piccolo amico: l'arvicola delle nevi (Chionomys nivalis).

L' arvicola fa "cheese"!
Foto ANSA
Arvicola delle nevi
(Chionomys nivalis)
Foto di Girardi F.

Si tratta di un esemplare appartenente alla famiglia dei Cricetidi, con folta pelliccia grigiastra e piccole orecchie. Le zampe posteriori sono piuttosto lunghe, tutto il corpo può avere una lunghezza che varia dagli 11 ai 14 centimetri, cui si aggiunge una coda lunga tra i 5 e i 7 centimetri.
So che per alcuni di voi, a guardare la foto, l'arvicola sembrerà solo l'ennesimo topolone disgustoso, tuttavia averlo come confermato abitante dei Sibillini è un grande traguardo: vuol dire che in questa zona il disturbo creato dalla presenza umana è ancora piuttosto basso.
Se seguite il blog da qualche mese conoscerete già questa area dei Sibillini, nella regione Marche, poiché Rifiuto Biologico se ne è occupato in un guest post in collaborazione con “I love Marche”. Sempre qui, ma nelle acque del lago di Pilato, infatti, vive una specie endemica: il crostaceo Chirocefalo di Marchesoni.
Per l'arvicola la storia è un po' diversa: almeno un esemplare era stato avvistato alla fine degli anni '70, ma non c'era stata nessuna conferma negli anni successivi.
Questo esemplare di roditore è comune nelle zone di alta montagna dell' Europa centro-meridionale, nell' Asia centrale ed occidentale ed in Italia sulle Alpi, sugli Appennini settentrionali ed in quelli abruzzesi.
Ieri, dopo lunga attesa, uno degli zoologi coinvolti nel progetto di ricerca, condotto dal Parco dei Sibillini con i fondi del Ministero dell'Ambiente per il monitoraggio della biodiversità, è riuscito ad acciuffare un'arvicola. I ricercatori hanno quindi proceduto al riconoscimento, confermando che si trattasse proprio di quella specie, e poi hanno rilasciato il roditore, che è tornato a zampettare sereno sulla pietraia.
La biodiversità del Parco aumenta, dunque, e lo stesso Ente Parco ha provveduto a rilasciare una dichiarazione in cui, oltre all'orgoglio per il nuovo piccolo abitante, si invitano i visitatori alla cautela ed al rispetto dell'ambiente durante le escursioni.
E' sempre bello poter parlare di queste novità, spero che apprezziate anche voi l'importanza della notizia.

venerdì 5 settembre 2014

Labirinto di mais e di ipotesi

Questa settimana torniamo a parlare di mais, dopo il post sull'installazione (!!) Quantomais a Milano.
Rifiuto Biologico ha scoperto che nelle Marche, paese di avidi mangiatori di ciauscolo e olive e bevitori di ottimo vino, è stato "costruito" un labirinto di mais che fa concorrenza allo stretto corridoio difronte al Castello Sforzesco.
A Senigallia, non lontano dal casello e dal centro città, alcuni baldi giovani riuniti nella società cooperativa Hort hanno costruito un grande labirinto, fatto appunto di mais.
Cosa si va a fare in un labirinto di mais? Si gioca a tornare bambini e si fanno divertire quelli che bambini ancora lo sono, facendo incontrare loro Alice e la Regina di Cuori, ad esempio. Tanto di cappello a chi si è inventato l'idea della caccia al tesoro settimanale nel labirinto e la notte del Minotauro, gli eventi sotto le stelle e la notte di paura che ci sarà proprio questo sabato sera.
Onore al merito anche perchè questa non è stata di sicuro un'estate facile da gestire, con ripetuti periodi di pioggia che hanno costretto gli operatori a chiudere il labirinto perché impraticabile causa fango. Oltre a ciò, siccome alle Marche non manca mai qualche sconvolgimento naturale, proprio mentre il mais stava crescendo Senigallia è stata colpita dall'alluvione, che ha creato difficoltà al grande progetto.
Se volete perdervi un po' avete tempo fino al 14 settembre per approfittare dell'occasione (orario di apertura 17/23). Intanto guardate questo divertente video fatto durante la costruzione del labirinto.



Il mais fu l'unico cereale che ebbe una vasta diffusione nel Vecchio Continente dopo la scoperta delle Americhe, poiché aveva una resa molto maggiore rispetto agli altri cereali comunemente usati. Tuttavia, la sua ascesa si accompagnò alla diffusione di una malattia che seminò il panico sociale, dato che le sue cause erano ignote.
Tra il XVIII ed il XIX secolo anche l'Italia settentrionale, come molti altri paesi europei e dell'America del Nord, fu sconvolta da un'epidemia di pellagra, termine preso in prestito dal dialetto lombardo (pelle agra, ruvida), che rapidamente si diffondeva negli strati più poveri della popolazione e sembrava un morbo misterioso ed incurabile. Si scatenarono le ipotesi sull'eziologia e la più probabile sembrò essere l'ingestione di pannocchie marce.
I malati di pellagra presentavano le cosiddette 3D: dermatite, diarrea e demenza. Quelli dei paesi anglosassoni ne potevano aggiungere una quarta per death, morte, a cui quasi tutti i pazienti arrivavano dopo circa 3 o 4 anni dall'inizio dei sintomi. Va da sé che i poveretti soffrivano terribilmente e non potevano esporsi a lungo alla luce, poiché avevano una pelle sensibilissima.
La situazione era simile in molti paesi, anche negli Stati Uniti, in cui nel 1914 un brillante scienziato, il dottor Goldberger, volse lo sguardo verso questa nuova epidemia ed iniziò anche lui a cercarne le cause. Gli studi da lui compiuti in orfanotrofi e prigioni lo portarono a considerare falsa l'ipotesi ventilata da molti, secondo cui la malattia sarebbe stata infettiva, cioè originata da un batterio.
La sua osservazione era molto semplice: i detenuti o i bambini colpiti da pellagra non la trasmettevano mai al personale che si occupava di loro.
Sembrava una considerazione banale, ma l'esperienza di Goldberger in materia di epidemiologia lo rese sicuro di ciò. Inoltre, gli fece volgere lo sguardo alla dieta dei pazienti ed iniziò a pensare che la vera causa fosse una malnutrizione. Diminuendo la presenza di mais nella loro alimentazione e, dunque, sottoponendo i suoi “soggetti” ad una dieta più ricca di carne, latte e verdure, ottenne miglioramenti e guarigioni. A questo punto, però, nessuno gli credeva, perché le nuove idee hanno sempre difficoltà a farsi strada nell'opinione comune.
Che cosa fece, allora, il dottor Goldberger? Si fece iniettare il sangue di un malato di pellagra per dimostrare che non si trattava di un'infezione e, indovinate un po', sia lui che il suo staff non contrassero la malattia.
Malgrado ciò, i medici rimasero piuttosto scettici riguardo alle cause alimentari della pellagra. Ad ogni modo, Goldberger continuò per tutta la vita a difendere la sua idea e ad usarla come bandiera per chiedere a gran voce miglioramenti delle condizioni di vita ed alimentari delle fasce più povere della popolazione.
In Italia l'idea di Goldberger sarebbe stata ampiamente dimostrata, dato che la maggior parte dei pazienti apparteneva a fasce povere di popolazione, le quali basavano la loro dieta interamente sul mais. In Veneto, regione in cui si riscontrarono sempre i picchi più alti di presenza di pellagra, i contadini si cibavano di circa due o tre chili di polenta al giorno, non avendo altro di cui nutrirsi.
Nel corso del XX secolo anche in Europa la ricerca fece dei progressi notevoli, arrivando a confermare che la causa della pellagra era l'insufficienza nella dieta di niacina (vitamina PP) o dell'aminoacido triptofano, necessario alla sua costruzione.
Il mais da solo non è un alimento completo, perciò chi si cibava solo di esso andava incontro ad un grave deficit nutrizionale. La soluzione per arginare l'epidemia era variare la propria dieta, integrandola con altri alimenti che avrebbero fornito vitamina PP e triptofano.
Ora, però, sorge spontanea una domanda: le popolazioni dell'America Centrale che da sempre hanno basato la loro dieta sul mais, come facevano ad essere sane o comunque poco intaccate dalla malattia?
La risposta giace nel loro bagaglio culturale. Da sempre i popoli azteco e maya avevano come tradizione quella di bollire il mais con acqua e bicarbonato di calcio e poi lasciarlo riposare per una notte. Il processo si chiama nixtamalizzazione ed aiuta il mais a liberare niacina, rendendola disponibile per il consumo di chi ingerisce l'alimento. Ovviamente al di fuori dell'America Centrale la procedura non era nota, perciò il mais veniva solamente bollito in acqua, con le infauste conseguenze che ora conosciamo.
Per concludere, nel labirinto delle ipotesi, a volte la soluzione giunge inaspettata da un angolo che non avevamo mai pensato di esplorare.