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venerdì 19 settembre 2014

Una storia di fantasmi ed avocado

Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un post del sito Brainpickings riguardante un libro, scritto da Connie Barlow, intitolato “The ghosts of evolution”.


Non so ancora dare un'opinione completa su tutto lo scritto, tuttavia ho letto con interesse, forse anche con il solito scetticismo, le prime pagine e sono rimasta colpita da quello che l'autrice racconta riguardo l'avocado.
Questo frutto, proveniente dall'America Centrale, proviene da un albero che è stato chiamato, nella nomenclatura scientifica, Persea americana. Quasi tutti almeno una volta nella vita abbiamo guardato al supermercato questi frutti piriformi, di un verde brillante e dalla buccia lucida e liscia. In pochi l'abbiamo portato a casa per farne qualcosa in cucina. Tuttavia, superato lo scoglio dell'acquisto, la sorpresa che ci aspetta dentro all'avocado è un unico grande seme scuro o, se ci riflettete bene, un enorme seme. Lì dentro la pianta ha nascosto il germe del nuovo albero ed anche tutta una serie di risorse affinché, nel caso il frutto cadesse a terra e non avesse modo di germinare, esso possa almeno contare sulle riserve immagazzinate nel seme stesso anche fino ad un anno intero.


Tutto ciò è molto commovente da parte di mamma avocado, se però facciamo quattro passi nella botanica, ci accorgiamo subito che c'è qualcosa che non va.
Il proposito di tutte le piante è produrre moltissimi semi che poi verranno dispersi in tanti modi: uno fra tutti, gli animali che mangeranno il frutto della pianta, lo digeriranno e faranno funzionare il loro intestino a distanza dalla pianta madre. Un altro albero crescerà lì dove l'animale ha lasciato i suoi escrementi.
Ora ditemi voi, quale animale vivente oggi può ingollare tutto intero il seme dell'avocado? Diciamo tutto intero perché la pianta ha evoluto un accorgimento per cui, se il seme viene frantumato, si liberano delle tossine che danno un cattivo sapore. Mamma avocado fa le cose per bene e, per i motivi esposti sopra, non permette che il seme possa essere rotto, mettendo a repentaglio le risorse fornite all'embrione per la sua delicata crescita.
La risposta è, allo stesso tempo, semplice ed affascinante.
L'avocado è nato e cresciuto nel Pleistocene ed ha evoluto le fattezze del suo frutto per irretire la megafauna vivente nella stessa epoca, attirata dalla sua polpa brillante e gustosa e perfettamente in grado di ingoiare un seme di quelle proporzioni senza soffocare e senza provare nemmeno a frantumarlo. Il loro esofago ed in generale il loro apparato digerente erano del tutto capaci di digerire la polpa e far uscire alla fine del “tubo” il seme, insieme a tutto il risultato della digestione, magari a qualche chilometro di distanza. La volontà dell'albero di avocado di propagare la propria progenie era fatta.
Per megafauna intendiamo, per fare lo stesso esempio del libro di cui parlavo all'inizio, dei Gomfoteridi, animali simili agli odierni elefanti, estinti ormai dalla fine del Pleistocene.



Anche i bradipi terrestri (ground sloths) erano tra coloro che si cibavano di avocado senza problemi, ma anch'essi sono ormai estinti.


Facendo due conti, quindi, l'autrice Barlow, sulla scia degli studi proposti dal biologo Daniel H. Janzen, definisce casi come quello dell'avocado degli “anacronismi evoluzionistici”: una pianta ha evoluto le proprie caratteristiche per coniugarle con quelle dei consumatori del frutto, in questo caso i consumatori del Pleistocene. Purtroppo, gli animali in grado di disperdere il loro seme lontano non esistono più da tempo.
Per fortuna dell'avocado, tuttavia, la stessa polpa del frutto ha richiamato un gran numero di consumatori nel tempo, dato il suo aspetto succulento ed i suoi interessanti valori nutrizionali e, quindi, ancora oggi possiamo mangiare la guacamole. 

“Un avocado è fatto per un mondo che non esiste più. Il frutto di questa pianta è un anacronismo ecologico.
I suoi partner mancanti sono i fantasmi dell'evoluzione.”
- Connie Barlow -

sabato 2 agosto 2014

Sole, Vento, Vino, Trallallà
I vigneti de La Geria, Lanzarote

Esiste una terra che in realtà è un canto lontano di mare e fuoco, che ricordano incessantemente come l'uomo, difronte alla Natura, sia davvero minuscolo.
Questa isola ha l'energia che possiedono tutte le isole vulcaniche e che non si riesce a descrivere bene se non se ne è mai visitata una. E' l'energia della terra stessa, il calore che emana da una manciata di sassi raccolti vicino alla bocca di un vulcano per il momento quieto, ma non spento per sempre.
La cenere, i lapilli, il vento, hanno modellato il paesaggio e delineato una vegetazione a tratti brulla e piuttosto africana.

Signore e signori, abbiamo un vincitore per quel che riguarda il quiz proposto nel penultimo post pubblicato, in cui si doveva provare ad indovinare il luogo dove era stata scattata questa foto.


Anzi, abbiamo una vincitrice!
Per il momento le risposte mi sono arrivate via messaggio, causa alcuni problemi con i commenti al post del blog, ma credetemi quando vi dico che questa signorina ha sbaragliato tutti a colpo sicuro ed al primo tentativo, vanificando il mio tentativo di depistaggio nella foto proposta!
Perciò, M.C., sai già di aver vinto, ora ritirerai anche il premio appena ti verrà in mente quale sia il tuo dubbio biologico da risolvere.

Dopo queste righe di suspense, svelo anche a voi che l'isola di cui stiamo parlando è Lanzarote, nell'arcipelago delle Canarie. In particolare, la foto è stata scattata nella zona de La Geria, conosciuta per le numerose coltivazioni di viti che producono una deliziosa Malvasia e per la presenza, conseguente, di molte bodegas (cantine).
A Giugno ho avuto la possibilità di visitarne una in particolare, la più antica delle Canarie e una delle più antiche di Spagna, la Bodega El Grifo, le cui prime notizie riguardo la fondazione risalgono al 1775.
Nel prezzo del biglietto d'ingresso sono comprese la visita alla cantina vera e propria, una passeggiata nel vigneto e una degustazione di vino. Con qualche euro in più si può assaggiare più di un vino e si ha diritto ad una piccola merenda a base di pane tostato e formaggio locale. Non dimentichiamo che la degustazione può essere fatta comodamente nel patio all'aperto sul retro della costruzione. Una sosta paradisiaca, se devo dare la mia opinione.

Ricorderete che nel precedente articolo sul vino abbiamo parlato della vite e dei fattori che portano alla sua evoluzione.
Quest'ultima, come ormai potete immaginare da soli, ha anche degli svantaggi. Infatti, se ci si “sposta” sempre più verso alcune tipologie di viti, la varietà nella pianta può diminuire. In molti paesi sono stati svolti degli studi per recuperare la tipicità e l'originalità delle varietà presenti e creare nuovi vini autoctoni, che altrimenti non vedrebbero la luce.

L' Universitat Rovira i Virgili di Tarragona, in Spagna, ne ha svolto uno in collaborazione con alcune cantine di Lanzarote, tra cui anche El Grifo.
Potete prendere visione di questo studio del 2013 qui; pur essendo in spagnolo, conoscendo le premesse e dando uno sguardo ai grafici in fondo, potrete avere un assaggio di quanta sia effettivamente la varietà nelle tipologie di vite presente sull'isola.
Scopo dei ricercatori è stato caratterizzare gli ecotipi della vite presenti a Lanzarote con la tecnica del DNA microsatellite, o STR (short tandem repeats).
Panico? Niente paura, andiamo a spiegare cosa sono queste STR.
Prima di tutto, diciamo che non tutto il nostro DNA codifica per le proteine, anzi la maggior parte  se ne sta lì bello tranquillo senza (apparentemente) fare nulla.
Le STR fanno parte di questo DNA non codificante e si trovano tra un gene e l'altro, in posizioni precise del cromosoma.
Le STR sono costituite da DNA ripetuto in piccoli blocchetti sempre uguali e sono molto utili quando si fanno dei confronti tra individui, siano essi piante, animali o uomini.

Vi state domandando perchè? Guardate la figura qua sotto.

Figura 1: STR corrispondenti

Figura 2: STR non corrispondenti
Grafiche di Pando
 
Consideriamo le ciliegine come se fossero delle sequenze ripetute (STR) non codificanti, mentre limoni e stelline identificano la parte codificante del cromosoma, quella che produce le proteine.
DNA 1 è un campione del genoma di una vite, DNA 2 un campione derivante dal genoma di una vite diversa.
In Figura 1 le due parti costituite da STR (in azzurrino) sono identiche, in Figura 2 sono diverse.

Lo studio dei microsatelliti serve ad ottenere la cosiddetta impronta genetica di un organismo. Individui diversi avranno una serie di ripetizioni diverse in determinate posizioni del cromosoma e allo stesso modo tracce dello stesso individuo saranno sovrapponibili perché in una precisa zona del cromosoma ci sarà lo stesso numero di ripetizioni.
Da questo lavoro, portato a termine usando la tecnica dei microsatelliti, è possibile intuire come nelle isole Canarie, specialmente in quella di Lanzarote, sia possibile riconoscere una gran varietà di tipologie di vite, che producono vini tipici di queste isole.
I ricercatori sono riusciti a:
  • raggruppare le viti in 27 gruppi in base al loro DNA;
  • vedere chiaramente fino a che punto alcune tipologie di piante siano imparentate con altre;
  • collegare alcuni ecotipi sconosciuti a tipologie di viti già note.
Senza allargarci a tutto l'arcipelago canario, che cosa rende davvero particolare il vino di Lanzarote?
E' bene ricordare che nel 1730 iniziarono sull'isola delle impressionanti eruzioni vulcaniche, che costrinsero gli abitanti a rifugiarsi sulla costa più orientale e che si protrassero per cinque anni. Di conseguenza la cenere vulcanica ricoprì completamente il terreno, lasciando scarse possibilità di coltivazione per quanto riguardava frutta e verdura.
Tuttavia, vuoi per spirito di intraprendenza, vuoi per la disperazione di vedere distrutta la propria terra, si hanno notizie di coltivazione della vite già da prima che cessassero le eruzioni.
Con il tempo proprio la cenere vulcanica si rivelò essere l'uovo di Colombo: proteggeva la pianta dalle problematiche derivanti dalle scarse piogge e dal disseccamento che avveniva a causa del forte vento che spazzava l'isola. Il lapillo (el picon) riusciva, infatti, ad attenuare l'eccessiva evaporazione e proprio con pietre di origine vulcanica venivano costruiti i muretti tuttora eretti a proteggere le viti nella zona de La Geria.
La vite è piantata in un foro fatto nel terreno, che la mantiene bassa e le garantisce la protezione del muretto. Quest'ultimo è incompleto: tra le pietre che lo costituiscono vengono lasciati dei fori che “rompono” il fronte ventoso, il quale, invece di abbattersi sulla pianta tutto in una volta, viene “spezzato” in più deboli correnti che disturbano in misura minore o addirittura per nulla la vite.
Il tipico muretto dell'isola è fatto a ferro di cavallo, sebbene nei vigneti più estesi si proceda alla costruzione di muretti quadrati per ottimizzare la quantità di viti che è possibile piantare.
Alle cantine El Grifo sia la raccolta che la cura del vigneto sono fatti manualmente, l'utilizzo del trattore è solo per le parti della vigna in cui esso riesce effettivamente a passare, le più centrali e ampie.
Vale la pena ricordare anche che i vigneti canari non sono stati mai intaccati dalla Fillossera, per cui non si è avuto bisogno di ricorrere agli innesti di cui parlavamo due settimane fa.
Fare di necessità virtù è qualcosa di più che un semplice motto per l'isola di Lanzarote, in cui il vulcano, il vento e l'ingegno dell'uomo si sono uniti per far sì che si potesse ottenere dalla terra un nettare degno di nota.
Esiste, dunque, un'isola a largo del Marocco, in cui mare, vento e fuoco la fanno da padroni. Tuttavia la sua è solo un'apparente aridità; essa ha nascosto tesori e ambrosia per chi ha saputo cercarli.
Ora fatevi un bel giro tra vigneti e cantine a Lanzarote. Buon fine settimana!




Ecotipo: varietà di piante diverse, la cui differenza risiede nell'interazione del materiale ereditario della pianta con l'ambiente in cui vive e con l'influenza dell'uomo.Torna su

martedì 24 giugno 2014

Solstizio d' Estate ai piedi di due Ginkgo biloba

Cari lettori di Rifiuto Biologico, è da un paio di settimane che non mi leggete. 
Invece di tediarvi con scuse e magari bugie, spero che possiate essere felici di sapere che da oggi il blog verrà arricchito con tantissimi argomenti che derivano proprio dalle mie settimane di silenzio. 
  

Prima di tutto, benvenuta Estate!
Il 21 giugno, alle ore 10.51, c'è stato il Solstizio d'estate, il giorno più lungo dell'anno e di conseguenza la notte più corta. Una giornata da reclusi per i vampiri, bisogna considerarlo.

Orto Botanico di Brera
Foto di Gea

Il 21 ed il 22 giugno si è svolta, proprio in occasione di questa ricorrenza, la Festa del Solstizio d'Estate negli Orti Botanici della Lombardia (www.reteortibotanicilombardia.it), arrivata alla sua undicesima edizione.
Gli Orti hanno aperto le porte al pubblico accogliendolo con laboratori, visite guidate, mostre ed eventi per scoprire le meraviglie della botanica ed affascinare persone di ogni età.
Per quanto mi riguarda, ho avuto l'occasione di visitare l'Orto Botanico di Brera e di portarmi a casa un'esperienza unica … ed i semi di una piantina che probabilmente farà la gioia della mia mamma, dato che a casa mia ultimamente muoiono anche le piante grasse.
L'Orto Botanico si trova nel cuore del centro storico di Milano.
Fin dall'ingresso sembra di arrivare in un posto benedetto, senza il frastuono del traffico e con alberi altissimi a fare da tetto. Non si tratta di un posto immenso, sono soltanto 5000 metri quadrati alle spalle del palazzo che ospita la famosa Pinacoteca di Brera.

Retro del Palazzo della Pinacoteca di Brera
Foto di Gea

L'Orto nella sua attuale configurazione fu fondato da Maria Teresa d'Austria nel 1774 con scopi scientifici e didattici. Nel sito web dedicato (www.brera.unimi.it) se ne possono leggere le alterne vicende fino alla riapertura, dopo il restauro, nel 2001.
La suddivisione fittizia in due parti fa sì che riusciamo ad ammirare per prime le aiuole recintate da mattoncini che risalgono all'epoca della sua fondazione e, in fondo, uno spazio circondato da alberi molto antichi, tra cui due esemplari di Ginkgo biloba, la cui foglia è anche il simbolo dell'Orto stesso.
A questo punto dovreste esclamare: “Ma certo! Il Ginkgo! Ne abbiamo già letto in uno degli scorsi post!”
Lo state facendo? Bravissimi!
Non lo state facendo? Va bè, erano soltanto due righe, potrebbe esservi passato sotto al naso senza che ve ne siate accorti.
Rimediate rileggendo il post sul pesce elefante.

Ginkgo biloba
Philipp Franz von Siebold and Joseph Gerhard Zuccarini
Flora Japonica, Sectio Prima (Tafelband)

Il Ginkgo biloba è un albero originario della Cina. Esisteva già in epoca mesozoica, con le sue foglie divise in due e l'eleganza del suo tronco.
Si tratta di un fossile vivente, un organismo il cui DNA è rimasto al riparo da molti fenomeni mutazionali, rendendo il genoma degli alberi di adesso sovrapponibile a quello degli alberi del Mesozoico.
Qui all'Orto Botanico di Brera si possono ammirare due esemplari importati dalla Cina nel 1775, un maschio ed una femmina. Infatti, il Ginkgo è una pianta che si definisce dioica, cioè possiede strutture fertili maschili e femminili su piante diverse, diversamente da molte altre piante che invece sono maschi e femmine insieme sulla stessa pianta, in modo piuttosto pratico per la loro riproduzione.
L'impollinazione dei fiori è anemofila, cioè dipende dal vento e non, ad esempio, dagli insetti, come siamo forse più abituati a pensare. Questo tipo di impollinazione è considerato tipico di piante molto primitive, per l'ovvia ragione che garantisce un minor successo nella fecondazione rispetto a quanto avviene con il trasporto del polline da parte degli insetti.
Da questo derivano due conseguenze:
  • la pianta deve produrre una quantità molto maggiore di polline per assicurarsi tante possibilità di discendenza;
  • la pianta non deve agghindarsi per attirare gli insetti e favorire l'impollinazione, né produce nettare. Le piante con fecondazione anemofila hanno però bisogno del vento per portare a termine la loro missione e per questo hanno evoluto altri stratagemmi per moltiplicare le loro possibilità.

Il Ginkgo viene considerata una pianta dalle potenzialità antiossidanti, poiché contiene molti polifenoli. Ancora non è stato confermato scientificamente il fatto che le stesse sostanze possano aiutare anche nei disturbi della memoria, come la malattia di Alzheimer.
Sembra invece che il consumo di Ginkgo biloba aiuti la circolazione del sangue, motivo per cui è spesso tra i componenti di rimedi naturali che contrastano la fragilità capillare e la comparsa di varici.
Per lungo tempo il Ginkgo biloba è stato coltivato dai monaci buddisti cinesi e non è raro trovarlo accanto ai templi o come ornamento nei giardini orientali.
I suoi principi attivi ne facevano l'ingrediente principale del tè dell'eterna giovinezza e la stessa foglia bilobata è stata associata nella filosofia orientale al principio dello Yin e dello Yang, secondo cui la realtà è governata dagli opposti (basso e alto, maschio e femmina, bene e male).
Una pianta molto misteriosa, conservata in uno scrigno che sembra impossibile si trovi nel centro storico di Milano.
La bellezza di una visita all'Orto Botanico di Brera, oltre alla possibilità di aggirarsi liberamente tra le aiuole ed alle tantissime attività che esso offre per tutte le età ed in tutte le stagioni, sta nel fatto che nei cartelli esplicativi sparsi qua e là c'è sempre una frase di un poeta o di uno scrittore “a tema”.
Vi propongo quella sul Ginkgo biloba:

Quando la bomba atomica trasformò la città di Hiroshima in un deserto annerito,
un vecchio ginkgo cadde fulminato vicino al centro dell' esplosione.

L'albero rimase calcinato come il tempio buddista che proteggeva.

Tre anni dopo, qualcuno scoprì che una lucina verde spuntava nel carbone. Il tronco morto aveva buttato fuori un germoglio. L'albero rinacque, aprì le braccia, fiorì.

Quel superstite della strage è ancora là. Perché si sappia.”



- Eduardo Galeano -



giovedì 22 maggio 2014

Vivi, morti o X (men)

Ormai in molti conoscono gli X-Men, volenti o nolenti.
In più, ci si divide sostanzialmente in tre gruppi: quelli che sanno tutto sia dei film che dei fumetti da cui sono stati tratti, quelli che vedono dieci secondi di trailer e cambiano canale, quelli che guardano i film, li trovano belli, ma fermati lì.
Poi ci sono quelle che ti dicono “Io degli X-Men conosco Wolverine”, chissà perché.
Personalmente non sono una fan dei fumetti, anche se, grazie ai film ed alla passione di alcune persone a me molto vicine, sono rimasta piacevolmente colpita da quel che giace al fondo di questa saga. Siccome in molti si stanno preparando ad invadere i cinema per l'arrivo, proprio oggi, del nuovo capitolo della serie, mi sembrava opportuno scrivere qualcosina, anche per le sventurate (di solito sono le fidanzate, in questo caso) che saranno trascinate senza pietà a godersi ore di combattimenti, lettura nel pensiero ed uno strano caschetto.
Per fortuna che c'è Wolverine, sul quale ci dilungheremo in un post successivo.
Innanzitutto gli X-Men si chiamano così perché tutti quanti possiedono il Gene X, una mutazione a carico del loro genoma che conferisce loro caratteristiche straordinarie. Solo per fare un esempio: capacità di telepatia o telecinesi, possibilità di manipolare gli elementi atmosferici o i campi magnetici, resistenza fisica portata all'impossibile, capacità di mutarsi completamente in qualsiasi altra persona.
La caratteristica che mi porta ad apprezzare particolarmente questo gruppo di personaggi è che, a differenza di una miriade di altri loro colleghi, i loro poteri non sono derivati da un incidente straordinario, come è avvenuto per Spiderman o per Hulk, ma da un avvenimento naturale, sebbene ovviamente portato nel campo della fantascienza.

Il primo albo di fumetti sugli X-Men fu pubblicato nel 1963 da Marvel Comics. In esso i mutanti erano solo un piccolo gruppo di adolescenti, non accettati dal mondo ed in preda a cambiamenti profondi di psiche e corpo. Problemi comunque più pressanti nel loro caso rispetto alla normale acne o ad altezze sproporzionate di ragazzini sottilissimi dal discutibile odore. Quando non sei né carne né pesce, insomma, anche se per gli X-Men c'era qualche problemino in più.
La tematica del fumetto scava, tuttavia, ancor più nel profondo. Al centro ci sono la diversità del mutante, essere mostruoso ed incompreso in un mondo di umani e perciò considerato pericoloso. Il vero problema, tuttavia, è che di mutanti non ce ne sono proprio pochissimi nel mondo, quindi gli umani “normali” tentano di arginare il fenomeno con sperimentazioni su sieri che possono far “guarire” dal Gene X o semplicemente mettendo in atto la volontà di registrare i mutanti.
Un primo passo verso la discriminazione e l'odio razziale, insomma.
In tutto ciò gli stessi X-Men si dividono in due fazioni; da un lato Charles Xavier, potente telepate, fiducioso in un utopico mondo in cui mutanti ed umani coesistono, dall'altro Magneto, in grado di manipolare metallo e campi magnetici a suo piacimento, ostile agli umani e sostenitore della superiorità dei mutanti.
Una storia affascinante e ricca di sfaccettature, probabilmente per questo motivo il rilancio sul grande schermo ha rivalutato anche le sorti del fumetto.

La mutazione è da sempre stata la base dell'evoluzione poiché determina la variabilità genetica che possiamo individuare con un unico sguardo alle persone intorno a noi.
Di che cosa si tratta? Si definisce come un cambiamento permanente ed ereditabile del patrimonio genetico e può avvenire in qualsiasi organismo. Si tratta di un processo lento e casuale, che può risultare in un cambiamento positivo, negativo o indifferente per l'individuo mutato.
Un esempio che mi è sempre sembrato molto esplicativo è il caso della Biston betularia, una falena che si mimetizzava su tronchi di albero ricoperti da licheni di colore chiaro, dato che anch'essa aveva ali chiare che le permettevano di passare inosservata ai predatori.

Biston betularia morpha typica
Foto di Olaf Leillingen

Con l'avvento della rivoluzione industriale in Inghilterra, molti di questi licheni scomparvero ed il tronco degli alberi annerì per l'inquinamento ed i fumi industriali. Le falene che, per una mutazione, nascevano con le ali scure avevano un vantaggio notevole nei confronti di quelle con le ali chiare e sicuramente venivano predate in misura molto minore. 

Biston betularia betularia morpha carbonaria
Foto di Olaf Leillingen

Dopo un certo periodo di tempo la popolazione dalle ali scure soppiantò completamente quella delle sorelle con ali biancastre. Il fenomeno fu chiamato “melanismo industriale” e fu spiegato come una mutazione spontanea del gene responsabile del colore delle ali accompagnato da una selezione naturale sfavorevole per le falene che in un primo tempo erano il gruppo predominante, quelle dalle ali chiare.
Le mutazioni possono essere spontanee o indotte da agenti esterni, come sostanze chimiche, ad esempio; senza scomodare i rifiuti tossici, basti pensare alle sostanze contenute nello scarico dei motori, nelle sigarette o nella parte carbonizzata dei cibi. Anche i raggi ultravioletti sono mutageni
La mutazione può interessare una piccolissima parte del genoma, un intero gene o una zona ancora più grande del nostro corredo genetico.
Se per l'organismo esiste la capacità di mutare, esiste anche l'opposto, cioè un meccanismo di riparazione del genoma mutato. E' come una bilancia: se il tasso di riparazione è alto, quello di mutazione è ridotto e viceversa. I vari meccanismi di riparazione, tuttavia, differiscono da più semplici a più complessi, anche se non sempre quelli più complessi corrispondono ad un maggior livello evolutivo. Gli umani, ad esempio, hanno in comune alcuni di questi meccanismi con le mosche.
Avremo modo di approfondire alcuni interessanti casi di mutazione in altri post, nel frattempo vi lascio con una battuta del film X-Men, che riporta nel mondo della finzione le basi scientifiche di cui abbiamo parlato oggi insieme.

La mutazione è la chiave della nostra evoluzione, ci ha consentito di evolverci da organismi monocellulari a specie dominante sul pianeta. Questo processo è lento e normalmente richiede migliaia e migliaia di anni, ma ogni centinaio di millenni l'evoluzione fa un balzo in avanti.

- Charles Xavier - 





giovedì 8 maggio 2014

Elogio della lentezza - Il pesce elefante

Al secondo anno di università in molti abbiamo sbattuto la faccia contro l'Anatomia Comparata dei Vertebrati. Il nostro professore sembrava poco evoluto nei rapporti umani e le sue lezioni erano delle lunghe dissertazioni su alberi filogenetici lunghissimi e complicati. Come se non bastasse, a questa sua scarsa propensione alla giovialità si aggiungeva il fatto che quasi tutti gli studenti lasciavano il suo esame per ultimo e lo supplicavano di lasciarli liberi dal giogo universitario anche con un diciassette e tre quarti e un calcione nel didietro.

Lui, in modo piuttosto prevedibile, non era contento e bocciava quasi tutti.

Quindi i suoi esami erano le sedi in cui venivano alimentate le più bieche leggende metropolitane, tipo che se facevi la tesi con lui ti faceva stare delle giornate intere a contare le scaglie di un pesce al microscopio, oppure che all'imbrunire diventasse Mister Hyde.

Il suo esame consisteva unicamente di un colloquio orale su un tomo scritto piccolissimo, che se avevi il libro fotocopiato non riuscivi a prendere un voto alto al primo appello perché al capitolo dieci i tuoi genitori dovevano portarti dall'oculista. 
La stranezza del professore risiedeva anche nel fatto che, al momento della tua grande prova, lui ti metteva davanti un modellino e ti chiedeva di spiegarlo. In molti erano sopraffatti dalla richiesta di spiegazione su un gigantesco uovo di struzzo che era effettivamente accanto a te mentre tentavi di non svenire sulla sedia.

Tuttavia, io ricordo che, a parte un momentaneo senso di sconvolgimento quando ti accorgevi che non stavi più parlando di animali “senza spina dorsale” e che l'evoluzione di rettili e anfibi apparteneva, in fondo in fondo, allo stesso filo che giustificava la tua presenza sulla terra, la materia era stupenda. Difficile, ramificata, mnemonica in molti punti, ma deliziosa. A distanza di anni (ahimé) non ricordo nulla di particolare, ma ricordo con meraviglia la soddisfazione di vedere i tanti apparati che abbiamo ancora oggi in corpo mutare nel tempo e nei vari gruppi.

Non appena i violini avranno smesso di suonare questa bella melodia nostalgica che accompagna il mio momento della memoria, inizieremo a parlare dell'argomento di oggi: il pesce elefante, diverso dallo squalo elefante, per chi avesse il dubbio.

Intanto ha una faccia piuttosto simpatica e possiede una proboscide molle con cui cerca sotto alla sabbia dei fondali il suo cibo, di solito costituito da crostacei. Il pesce elefante vive nei mari dell'Australia e della Nuova Zelanda ed il suo nome scientifico è Callorhinchus milii.

A gennaio di quest'anno è stato pubblicato un interessante articolo su Nature che parlava con enfasi estrema del fatto che il genoma del pesce elefante era stato finalmente sequenziato.

Grida di stupore degli scienziati, groupie impazzite sotto alla sede della conosciuta rivista scientifica.

B. Venkatesh, uno degli autori dello studio, con un pesce elefante.
"Lo sequenzio io il tuo genoma!"
(Courtesy of B. Venkatesh)
 
In generale, è una cosa che interessa soltanto un ristretto gruppo di persone addette ai lavori, come spesso accade quando si va nello specifico di qualsiasi materia. Per dire, è lo stesso effetto che mi farebbe sapere che Leopardi come spuntino pomeridiano mangiava un kiwi. Io probabilmente mi chiederei dove li trovava all'epoca, ma gli studiosi di letteratura parlerebbero per giorni di come il kiwi abbia influenzato la poetica di Giacomo.

Senza un contesto è difficile far quadrare le cose, nel caso del pesce elefante o callorinco il sequenziamento è importante perché innanzitutto ci dice che ha un genoma abbastanza limitato, circa un terzo di quello umano. In secondo luogo questo genoma è molto “datato”, se mi passate il termine.

Il callorinco è stato definito come l'animale in assoluto più lento al mondo ad evolvere.

Il suo DNA è oggetto di studio perché questo pesce si può definire un fossile vivente. Studiando i suoi geni, è possibile avere una fotografia, da mettere man mano a fuoco con successivi studi, dei primi stadi dell'evoluzione.

Il termine fossile vivente fu coniato da Charles Darwin per indicare quegli organismi animali e vegetali che hanno avuto un tasso di evoluzione molto basso e perciò sono rimasti invariati per centinaia di migliaia di anni. Un esempio è il Ginkgo biloba, una pianta che esisteva ai tempi dei dinosauri, ed era alta dai 30 ai 40 metri.

Parlando del regno animale, tuttavia, in principio c'erano gli gnatostomi: un gruppone in cui sono stati inseriti tutti i Vertebrati provvisti di mandibole.

La storia evolutiva procede dai pesci (cartilaginei e poi ossei), agli anfibi, ai rettili, agli uccelli e continua con i mammiferi. E' chiaro che dei gruppi più recenti abbiamo moltissime testimonianze, ma è altrettanto ovvio che studi sul genoma dei cosiddetti fossili viventi ci aiuta a capire le tappe evolutive delle specie più antiche.

Dagli gnatostomi, infatti, nascono due gruppi diversi tra loro: i pesci cartilaginei e quelli ossei, distinti tra loro per l'elemento che forma il loro scheletro. Da un lato abbiamo infatti la cartilagine, dall'altro, appunto, il tessuto osseo.

Il pesce elefante ha un genoma talmente “vecchio” che è più simile a quello dei primi gnatostomi di circa 450 milioni di anni fa, rispetto ai pesci ossei odierni, suoi non troppo lontani cugini.

E' importante studiarne il contenuto per conoscere meglio le radici del processo evolutivo che ha portato fino a noi.
Lo studio in questione è stato pubblicato da un gruppo di ricercatori di Singapore e St Louis e lo potete leggere qui.
Tra le altre cose, questa ricerca potrebbe riuscire a spiegare il motivo per cui i pesci ossei hanno le ossa e quelli cartilaginei no. L'ipotesi fatta dagli scienziati è che al pesce elefante manchino i geni per alcune proteine che legano il calcio e promuovono l'ossificazione.

Semplicemente, non le producono perchè nel loro DNA non ci sono le istruzioni per farlo.

Infatti, in esperimenti su pesci ossei in cui sono stati silenziati i geni che effettivamente sono assenti nel callorinco, si è visto che lo scheletro dei pesciolini in esame rimaneva costituito di cartilagine.

Lo studio sul genoma del pesce elefante permetterà anche di imparare qualcosa di più sui meccanismi di immunità specifica del nostro organismo, un altro sguardo alle radici per capire meglio il funzionamento odierno del nostro sistema immunitario.

A cosa serve tutto ciò? A fare luce sui meccanismi evolutivi, che spesso si rivelano concatenati anche se ad un primo sguardo possono sembrare totalmente estranei.

Per fortuna la Natura non ci ha lasciato orfani di questi animali dall'antico retaggio ancora scritto nel DNA e ci permette di guardare indietro per andare avanti con i nostri studi.

A volte, la lentezza è un pregio.