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venerdì 19 settembre 2014

Una storia di fantasmi ed avocado

Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un post del sito Brainpickings riguardante un libro, scritto da Connie Barlow, intitolato “The ghosts of evolution”.


Non so ancora dare un'opinione completa su tutto lo scritto, tuttavia ho letto con interesse, forse anche con il solito scetticismo, le prime pagine e sono rimasta colpita da quello che l'autrice racconta riguardo l'avocado.
Questo frutto, proveniente dall'America Centrale, proviene da un albero che è stato chiamato, nella nomenclatura scientifica, Persea americana. Quasi tutti almeno una volta nella vita abbiamo guardato al supermercato questi frutti piriformi, di un verde brillante e dalla buccia lucida e liscia. In pochi l'abbiamo portato a casa per farne qualcosa in cucina. Tuttavia, superato lo scoglio dell'acquisto, la sorpresa che ci aspetta dentro all'avocado è un unico grande seme scuro o, se ci riflettete bene, un enorme seme. Lì dentro la pianta ha nascosto il germe del nuovo albero ed anche tutta una serie di risorse affinché, nel caso il frutto cadesse a terra e non avesse modo di germinare, esso possa almeno contare sulle riserve immagazzinate nel seme stesso anche fino ad un anno intero.


Tutto ciò è molto commovente da parte di mamma avocado, se però facciamo quattro passi nella botanica, ci accorgiamo subito che c'è qualcosa che non va.
Il proposito di tutte le piante è produrre moltissimi semi che poi verranno dispersi in tanti modi: uno fra tutti, gli animali che mangeranno il frutto della pianta, lo digeriranno e faranno funzionare il loro intestino a distanza dalla pianta madre. Un altro albero crescerà lì dove l'animale ha lasciato i suoi escrementi.
Ora ditemi voi, quale animale vivente oggi può ingollare tutto intero il seme dell'avocado? Diciamo tutto intero perché la pianta ha evoluto un accorgimento per cui, se il seme viene frantumato, si liberano delle tossine che danno un cattivo sapore. Mamma avocado fa le cose per bene e, per i motivi esposti sopra, non permette che il seme possa essere rotto, mettendo a repentaglio le risorse fornite all'embrione per la sua delicata crescita.
La risposta è, allo stesso tempo, semplice ed affascinante.
L'avocado è nato e cresciuto nel Pleistocene ed ha evoluto le fattezze del suo frutto per irretire la megafauna vivente nella stessa epoca, attirata dalla sua polpa brillante e gustosa e perfettamente in grado di ingoiare un seme di quelle proporzioni senza soffocare e senza provare nemmeno a frantumarlo. Il loro esofago ed in generale il loro apparato digerente erano del tutto capaci di digerire la polpa e far uscire alla fine del “tubo” il seme, insieme a tutto il risultato della digestione, magari a qualche chilometro di distanza. La volontà dell'albero di avocado di propagare la propria progenie era fatta.
Per megafauna intendiamo, per fare lo stesso esempio del libro di cui parlavo all'inizio, dei Gomfoteridi, animali simili agli odierni elefanti, estinti ormai dalla fine del Pleistocene.



Anche i bradipi terrestri (ground sloths) erano tra coloro che si cibavano di avocado senza problemi, ma anch'essi sono ormai estinti.


Facendo due conti, quindi, l'autrice Barlow, sulla scia degli studi proposti dal biologo Daniel H. Janzen, definisce casi come quello dell'avocado degli “anacronismi evoluzionistici”: una pianta ha evoluto le proprie caratteristiche per coniugarle con quelle dei consumatori del frutto, in questo caso i consumatori del Pleistocene. Purtroppo, gli animali in grado di disperdere il loro seme lontano non esistono più da tempo.
Per fortuna dell'avocado, tuttavia, la stessa polpa del frutto ha richiamato un gran numero di consumatori nel tempo, dato il suo aspetto succulento ed i suoi interessanti valori nutrizionali e, quindi, ancora oggi possiamo mangiare la guacamole. 

“Un avocado è fatto per un mondo che non esiste più. Il frutto di questa pianta è un anacronismo ecologico.
I suoi partner mancanti sono i fantasmi dell'evoluzione.”
- Connie Barlow -

sabato 30 agosto 2014

Blu aragosta
Lobster, she wrote

La maggior parte di voi ricorderà l'aragosta Pizzicottina, cui Homer era molto affezionato, in una puntata dei sempreverdi Simpson. Ricorderete anche i suoi sentimenti contrastanti al momento di mangiarla.
Se anche voi andate pazzi per i crostacei, specialmente le aragoste, sarete forse incuriositi dal fatto che esistono anche le aragoste blu!
La cosa che vi stupirà ancora di più è che non sono nemmeno le più rare.
L'idea per questo post mi è venuta dopo aver letto, qualche giorno fa, della cattura di un'aragosta blu nella costa nord est degli Stati Uniti, il ben noto Maine della Signora Fletcher e di Stephen King.

Aragosta blu
Foto di Justin Brook

Un tempo, tra il diciassettesimo ed il diciottesimo secolo, di aragoste in zona ce n'erano così tante che venivano addirittura utilizzate come fertilizzante per i campi. Tuttavia, nel secolo successivo questi crostacei iniziarono a scarseggiare e divennero, ovviamente, molto costosi per chi voleva consumarli.

Contrariamente a quanto ci dicono i cartoni animati, l'aragosta (in questo post mi riferisco alla variante nordamericana, Homarus americanus) non è rossa come quando la vediamo nel piatto, bensì ha una sfumatura che va dal rosso scuro/blu profondo al verdastro, poiché in questo modo essa riesce a confondersi meglio con il fondale marino.

Homerus americanus

Passando un po' alle statistiche, la probabilità di trovare un'aragosta blu è una su 2 milioni di aragoste. Sono un po' pochine, vero?
Ebbene, non sono le più rare, dato che esistono anche quelle gialle e che se ne trova una su 30 milioni. Esistono, inoltre, anche aragoste con esattamente metà del corpo bruno e metà rosso (una su 50 milioni di aragoste).

Aragosta bicolore
(no, non è un Photoshop)

Da questo punto di vista, sembra quasi abbastanza comune trovare un'aragosta blu, rispetto a trovarne una gialla o bicolore.
Tuttavia ho lasciato la chicca per ultimo: esiste un tipo albino di aragosta e, udite udite, se ne trova un esemplare ogni 100 milioni.


Aragosta albina
Credits YourDailyMedia

Le aragoste albine sono le uniche che non cambiano colore dopo la bollitura, diventando color rosso brillante, come accade con gli altri esemplari.
Provare per credere, dopo essere riusciti a comprare un'aragosta albina, naturalmente.

A questo punto facciamo chiarezza su tutte le varie colorazioni e diciamo forte e chiaro che la pigmentazione dell' esoscheletro del crostaceo dipende da proteine prodotte dall'animale stesso.
In particolare, qualche anno fa uno studio del Dr. Harry Frank dell'Università del Connecticut è stato pubblicato nel Journal of Physical Chemistry. Nel testo si spiegava il motivo della colorazione blu, imputandola ad un difetto genetico proprio dell'individuo che la esprimeva.
Abbiamo già detto che normalmente l' esoscheletro dell'aragosta ha una colorazione che va dall'arancione scuro fino al blu scuro/verdastro, frutto della presenza di pigmento carotenoide (astaxantina), che dà il colore aranciato, e di crustacianina, un complesso proteico costituito da astaxantine riunite in “mazzetti” da altre proteine.
Secondo lo studio di Frank, la vicinanza delle proteine riunite in un “mazzetto” fa cambiare la configurazione degli elettroni negli atomi che le costituiscono e fa in modo che l'intero gruppo assorba una radiazione luminosa diversa da quella che verrebbe assorbita da una singola molecola di astaxantina.
In questo modo le molecole riunite in gruppi danno delle zone bluastre sull' esoscheletro dell'aragosta.
In un esemplare di aragosta blu la situazione appena descritta è spinta al massimo, dato che, per una mutazione genetica, il crostaceo produce una gran quantità di proteine che riuniscono l'astaxantina in crustacianina. Per questo motivo la colorazione blu si estende a tutto l'animale.
In questo caso la mutazione non è molto favorevole alla povera aragosta, la quale spicca moltissimo sul fondale marino rispetto alle sue compagne e viene più facilmente catturata.
A questo punto la domanda sorge spontanea: l'aragosta blu, quando si cucina, resta dello stesso colore?
Risposta negativa, il calore dell'acqua disfa la crustacianina, liberando le singole astaxantine, che donano la tipica colorazione rosso brillante all'aragosta bollita.
Enigma risolto, dunque. Ne sarebbe fiera anche Jessica Fletcher!

giovedì 14 agosto 2014

Mai dire mais - Campo di Granturco in centro a Milano

Metti una mattina in cui devi andare a fare una commissione.
E' Agosto e, anche se non fa caldissimo, sudi abbastanza, ma non demordi e confidi nelle ultime energie del caffè bevuto un'ora prima. Dove possibile, cerchi l'ombra, e dove non è possibile acceleri l'andatura nei tratti al sole. Giusto così, per aumentare la sudorazione.
Sei quasi arrivata a destinazione, ancora pochi metri e potrai farti accettare alla nuca da quell'amichevole aria condizionata all'ingresso di ogni negozio.
Ti giri un attimo a sinistra e vedi … un campo di mais!
No, no, un momento, qui siamo davanti al Castello Sforzesco, in pieno centro a Milano, non in una scena di Children of the Corn (Grano rosso sangue nella versione italiana).
Sarà un colpo di calore? Saranno ormai esaurite le forze derivanti dal caffè? Tutti dicono che la colazione è importante, sarà dunque la maledizione del nutrizionista o del dietologo che si abbatte su di me?
Niente di tutto ciò: il campo di mais c'è davvero e ci sono anche un sacco di turisti che si fotografano con lo sfondo del Castello e il mais; in effetti è una foto ricordo piuttosto strampalata.
Della serie: quest'estate sono stata a Milano e in un campo di mais. Nello stesso momento. 

Foto di Gea

Si tratta di un'installazione per Expo e si chiama Quantomais.

Ogni volta che sento dire “installazione” rabbrividisco. Probabilmente perché non sono del settore. La maggior parte non riesco a capirla, mi sembrano cose messe lì tanto per occupare spazio, anche perché non è che tu le guardi e basta. Bisogna leggere i cartelli esplicativi, di solito circa una decina, prima di comprendere il volo pindarico fatto dall'autore per arrivare a concepire una cosa che a te assomiglia ad uno scivolo ed invece rappresenta l'evoluzione vista con gli occhi di un capodoglio.
Torniamo a Quantomais. Si tratta di un campo di mais di 360 metri quadri messo a dimora a Giugno ad Abbiategrasso e trasportato in centro nottetempo a fine Luglio in vari bancali. Al momento viene curato lì, davanti al Castello, con un impianto di microirrigazione.
I bancali di mais sono disposti in modo da costituire corridoi e stanze interne, dove sono ospitate anche piante aromatiche e piante da orto.
In questo spazio si svolge un calendario di eventi densissimo, a base di musica, letture bendati e laboratori per i più piccoli.
Ora, di tutte le installazioni che ho visto in vita mia, almeno questa si configura come uno spazio per eventi, da vivere, un po' per tutte le età. Devo dire che trovarsi difronte ad un campo di mais all'improvviso nel centro di una città è piuttosto curioso. Se volete visitarlo, comunque, affrettatevi: a fine Agosto il campo verrà “smontato” ed i bancali con le piante ceduti a giardini, scuole ed università che ne faranno richiesta. Proprio così, esiste un bando di adozione per “riciclare l'installazione” e potete trovare tutti i dettagli nel sito internet dedicato.
Io comunque da Quantomais sono capitata per caso e sono rimasta colpita, anche se per le installazioni non ho proprio la passione!

Abbiamo già parlato di mais colorato in un post di Aprile.
Oggi ricorderemo due vignette che a me fanno sempre ridere.

"Ti avevo detto di mettere la protezione solare!"
"Fa caldo fuori?"
"Oh, stai zitto!"




Com'è fatto un chicco di mais e, soprattutto, cosa succede quando facciamo il pop corn?
Il chicco è costituito da tre strati.
Il più interno si chiama endosperma ed è quello che costituisce la maggior parte del chicco. Qui c'è soprattutto amido in granuli, inserito in una matrice proteica, ed una piccola parte di oli ed acqua.
Lo strato intermedio è definito germe e si può dividere in tre parti:
  • quella che, se piantiamo il chicco, darà origine alle foglie;
  • quella che costituirà le radici della nuova pianta;
  • la terza parte, fatta di oli vegetali, che darà energia alla pianta durante la crescita.
Lo strato più esterno, molto resistente, si chiama pericarpo e si compone essenzialmente di cellule morte e strati spugnosi che servono ad assorbire l'acqua necessaria per la germinazione.
Infine, possiamo inserire nella nostra descrizione anche la parte apicale del chicco, costituita di materiale fibroso che ha la funzione di connettere il chicco alla pannocchia.
Quando si fa il pop-corn succede una cosa piuttosto semplice a raccontarla così: il chicco esplode e si rivolta, l'interno esce e l'esterno si accartoccia su sé stesso rimanendo nella parte centrale del pop-corn.

Perchè accade? La causa sta nella struttura del chicco stesso, che si comporta come una piccola pentola a pressione, ma alla fine deve arrendersi alle leggi della fisica.
Una piccola parte dell'acqua contenuta nell'endosperma evapora e fa aumentare la pressione tra le pareti del chicco, le quali sono resistenti e dunque non cedono, creando l'effetto pentola a pressione accennato sopra. Il vapore rovente scioglie l'amido in granuli e lo fa mescolare con l'acqua allo stato liquido ancora presente, non evaporata a causa dell'aumento di pressione di cui parlavamo prima.
Nel frattempo, la temperatura interna del chicco continua ad aumentare, ed essendo il volume fisso, poiché è l'interno del chicco stesso, anche la pressione nell'endosperma aumenta, finchè il pericarpo non riesce più a sopportarla ed esplode.
L'acqua allo stato liquido evapora e fa raffreddare l'amido, che solidifica in schiuma bianca: ecco servito il vostro pop-corn!
Cosa c'è di più bello rispetto a pensare a questo piccolo miracolo che unisce la perfezione di un chicco di mais con il relax di una serata davanti ad un bel film?
Un video alla moviola dei chicchi che scoppiano!
Godetevelo e la prossima volta fate una bella figura con gli amici!

sabato 26 luglio 2014

Panda per tutte le stagioni

Oggi si parla di panda.
Non quelle a quattro ruote, bensì quelli a quattro zampe, morbidosi e che nascono solo in modalità bicolore: i panda giganti o panda maggiori, il cui nome scientifico è Ailuropoda melanoleuca e sono diversi dal panda rosso.
Tutti sappiamo che sono in via d'estinzione, non a caso proprio questo animale è il simbolo del WWF, a monito dell'impegno di questa associazione per la salvaguardia delle specie in pericolo.
I panda giganti vivono in Cina, per la precisione tra le montagne del Sichuan, e sono della stessa famiglia degli orsi (Ursidae). 
Verrebbe da dire che sono anch'essi carnivori, come dimostrerebbe il loro stomaco semplice ed il loro apparato gastro – intestinale, ma chi di noi si immagina minacciato da uno sbavante panda nei propri sogni? E' molto più probabile pensare a questo animale accoccolato ai piedi di una pianta di bambù, mentre ne sgranocchia i germogli o le foglie.
I panda, infatti, sono erbivori per la quasi totalità; la loro dieta è basata sul consumo di due specie di bambù: il wood bamboo e l'arrow bamboo. Queste due tipologie di piante vivono ad altitudini diverse nell'habitat del panda ed uno studio molto recente ha provato a dimostrare quanto il panda sia abile nel bilanciare le due risorse al fine di ottenerne i nutrienti fondamentali per la sua dieta.
Il panda, lo ripetiamo, non ha un sistema digestivo adatto a scomporre piante così ricche in lignina e fibre come il bambù. Inoltre la sua dieta è povera di proteine.

Come fa allora a vivere da erbivoro, se non è “costruito” per esserlo?


Kung Fu Panda usa lo yoga
per digerire lignina e fibre del bambù

Lo studio a cui ci riferiremo è stato portato avanti per sei anni da istituti di ricerca cinesi, australiani e statunitensi e potete, come sempre, prenderne visione qui.
I ricercatori coinvolti hanno studiato il comportamento di un gruppo di panda in relazione alla loro alimentazione ed al cambiamento della stessa a seconda dei loro spostamenti durante le varie stagioni dell'anno. Si è presa in considerazione la quantità di tre elementi principali nella dieta del panda: il calcio, il fosforo e l'azoto, fondamentali nella riproduzione e nella crescita, come in tutti i mammiferi.
Dallo studio emerge che il comportamento del panda cambia a seconda delle stagioni.
Ora non immaginate il costume da bagno o la sciarpa di lana, si tratta di una variazione nella tipologia di cibo e nell'altitudine a cui lo trovano. Vediamo in breve le varie fasi.

PRIMAVERA
E' la stagione dell'accoppiamento.
I panda si cibano di germogli di wood bamboo, ad alto contenuto di azoto e fosforo, ma a basso contenuto di calcio.

GIUGNO
I panda salgono più in alto per mangiare germogli di arrow bamboo, sempre ricchi di nutrienti, ma con poco calcio.

TARDO LUGLIO
i panda si nutrono delle foglie di arrow bamboo, ad alto contenuto di calcio.

AGOSTO
Le femmine di panda tornano a più basse altitudini e, dopo circa tre mesi di gestazione, danno alla luce i loro cuccioli, i più piccoli della famiglia Ursidae. Le neo mamme si nutrono di foglie di wood bamboo, con un maggior contenuto di nutrienti e calcio, quest'ultimo utile per la produzione di latte.

INVERNO
Le foglie di wood bamboo avvizziscono, diminuendo la quantità di nutrienti fornita e mettendo in pericolo l'esistenza stessa dei panda, per i quali l'inverno è una stagione piuttosto problematica. Sembra, tuttavia, che essi riescano ad ottenere sostentamento anche da altre fonti per sopperire alla mancanza di nutrienti derivanti dal bambù.

Lo studio internazionale ha voluto studiare meglio la stupefacente sincronizzazione del ciclo vitale e riproduttivo dei panda giganti con le due specie di bambù che gli forniscono cibo per la totalità dell'anno.
Inoltre i ricercatori hanno ipotizzato che il calcio sia un fattore determinante per l'impianto in utero dell'embrione di panda, dato che è tipico di questa specie il cosiddetto impianto ritardato, distante anche mesi dalla fecondazione. Una delle motivazioni potrebbe essere che l'impianto segua le fluttuazioni del calcio nella dieta e che l'embrione attecchisca solo quando i livelli di questo elemento nella dieta della madre sono più alti.
Quest'ultimo fattore, sommato al fatto che il panda ha un periodo fertile molto ristretto durante tutto l'anno, mette in luce come sia fondamentale preservare l'habitat in cui vive il panda gigante se si vuole garantire la sua sopravvivenza.

Ci salutiamo con la vignetta di uno dei fumettisti che seguo con più piacere, che ha come protagonista, appunto, un simpatico panda.
Con un'estate così, poi, sarebbe sicuramente confuso anche riguardo a quali germogli mangiare!

Credits www.pandalikes.com

giovedì 10 luglio 2014

SOS degustazione

Guida semplice per non intenditori

Quando si pronuncia la parola VINO si sa già che ci si troverà difronte a due tipologie di persone:

- l'intenditore, colui che semplicemente SA. Anche se non gli hai chiesto nulla ti darà dei consigli e ti racconterà la storia di quella bevanda a lui così familiare. Non sempre è detto che abbia studiato l'argomento, anzi i più noiosi sono proprio quelli che non lo hanno fatto. Per loro Socrate (o Platone, se siete dubbiosi) si sbagliava quando diceva: “So di non sapere”. Loro SANNO. Punto.

- il godereccio, colui a cui basta che sulla bottiglia (o sulla scatola, per quel che gli importa) ci sia scritta la fatidica parola per tendere il bicchiere.

Non so esprimermi su quale delle due categorie io trovi più fastidiosa, tuttavia sento di affermare senza dubbio che io faccio parte di una terza categoria, quella degli sperduti.
Provo una certa venerazione per il vino e per il processo che lo fa diventare quel che è, perchè rappresenta davvero un delicato equilibrio tra Natura e uomo. Allo stesso tempo, quando mi sembra di aver intaccato la superficie dell'argomento, nuove nozioni mi ributtano indietro al punto di partenza.
E' un po' come vedere la riva dal largo e non riuscire a raggiungerla, pur nuotando “con stile perfetto” [cit. Pensavo fosse amore e invece era un calesse].
Per questo motivo cerco sempre di attingere alle conoscenze del gruppo degli intenditori, per poi verificarle a casa e, nel caso siano giuste, ricordarle.

Per sopravvivere alle degustazioni, che siano organizzate oppure a casa dell'ennesimo collega o amico, bisogna ricordare delle cose fondamentali, come ad esempio che il vino si fa con l'uva.
Lo so, lo so che lo sapete già, ma forse troppo spesso dimentichiamo che il vino non è solo succo d'uva. Molte persone pensano che basti schiacciare l'uva ed aspettare perchè si verifichi una magia che lo trasforma in vino, una specie di riedizione delle nozze di Cana, ma senz'acqua.
Il succo d'uva a questo punto fermenta, così, senza una ragione, solo perchè qualunque frutto schiacciato produce il proprio succo, ma più alcolico. Se così fosse, anche schiacciando una fragola e lasciandola un po' lì a decantare, avremmo in tempi più o meno brevi un buon succo di fragola alcolico, a seconda del processo di fragolificazione. Che cosa cambia?
Sulla superficie dell'acino d'uva c'è una sostanza di natura cerosa, chiamata pruina, che crea una patina bianca che si rimuove al solo passaggio di un dito sulla buccia. La pruina viene prodotta dalle cellule superficiali dell'acino e lo protegge da eccessiva disidratazione e dai raggi ultravioletti. Inoltre, questa sostanza trattiene sulla superficie dell'acino alcuni lieviti che danno il via alla fermentazione. E' il lievito il primo responsabile della vinificazione!

Il lievito può sopravvivere con vari mezzi. Alcuni tipi respirano ossigeno, proprio come voi e me, mentre altri, in assenza di ossigeno, possono utilizzare la fermentazione, degradando zuccheri per ottenere energia, anidride carbonica ed etanolo, responsabile della gradazione alcolica.
Et voilà, ecco cosa accade nella tinozza in cui abbiamo pigiato l'uva: un microrganismo, in assenza di ossigeno ed in presenza di zuccheri presenti nel chicco d'uva, ricava energia in un modo diverso dalla respirazione aerobica e produce sostanze che cambiano il substrato, in questo caso il mosto, in vino.
Naturalmente, quella di cui abbiamo parlato finora è una versione molto semplificata del processo di vinificazione. E' possibile che, oltre ai lieviti “indigeni” dell'acino spremuto, debbano essere aggiunti altri lieviti, a volte anche per dare un particolare aroma alla bevanda finale.
Un buon bicchiere di vino al giorno è consigliato nella propria dieta, proprio perchè così si integra la propria alimentazione con i polifenoli, antiossidanti naturali. Il vino è stato oggetto di numerosi studi scientifici e per citarli tutti impazzirei, ma sembra realistico il fatto che l'ingestione di molecole antiossidanti con un bicchiere a pasto migliorerebbe la salute e molti dei parametri controllati con le analisi del sangue.
Tuttavia, dove si trovano queste sostanze ed esattamente in che momento della vinificazione i polifenoli passano nel vino?
Tutti sappiamo che l'uva per diventare vino deve essere spremuta in qualche modo, che sia con una macchina o con i piedi dei contadini non importa, comunque sia da questo processo nasce il cosiddetto mosto, che poi può essere allungato con dell'acqua a seconda delle preparazioni cui andrà incontro. Il mosto inizierà gradualmente a fermentare e, come abbiamo appena detto, potrà farlo già spontaneamente o potrà essere aiutato dall' aggiunta di ulteriori lieviti.
Esistono fondamentalmente due principali tipi di vinificazione, quella in rosso e quella in bianco, per ottenere le due differenti tipologie di vino.

Nel primo caso il mosto viene lasciato a contatto con le vinacce, cioè le bucce ed i piccioli dell'uva, e nelle prime fasi della fermentazione avviene il processo di macerazione: le sostanze antiossidanti contenute nella parte più esterna dell'acino e nei vasi più superficiali che si trovano a contatto con la buccia si trasferiscono al mosto in relazione alla temperatura e alla durata del contatto di quest'ultimo con le bucce stesse. Quindi, a seconda di quanto a lungo restano in contatto, avremo vini rosé e rossi in varie sfumature.
Nel caso della vinificazione in bianco, invece, le vinacce vengono separate e non avviene la macerazione. Questo vuol dire che il vino bianco non ha polifenoli? No, semplicemente ne ha molti meno rispetto a quello rosso perchè non viene lasciato a decantare con le bucce, ma una parte dei polifenoli utili viene comunque trasferita al mosto nel momento della spremitura delle uve.



Questa è una breve guida molto semplificata, che può servire comunque per cavarsela egregiamente in caso di degustazione. Inoltre ci servirà come introduzione per alcuni post successivi in cui potrò descrivervi la mia esperienza alle degustazioni di vino ed una piccola gita che ho effettuato nei miei 20 giorni sabbatici di assenza dal blog.
Vorrei celebrare, inoltre, il principio di collaborazione donando un'immaginaria medaglia al Dr Bonavia, prezioso chimico per i momenti di confusione scientifica, per avermi permesso di districarmi nel mondo dei polifenoli e per avermi evitato di scrivere castronerie o semplici imprecisioni. La competenza è fatta di dettagli, dal mio punto di vista.
Ora vi lascio con questo delizioso cartone animato, so già che vi piacerà! In questo caso, faccio l'intenditrice e non la sperduta.



venerdì 21 marzo 2014

Polipo e polpo per me pari (non) sono

Venire a cena con me non è mai stata la più gettonata delle circostanze per molti, per questo ancora mi stupisco di come alcuni riescano a sopportare uno dei miei passatempi preferiti: trovare gli errori grammaticali e non solo nel menù. Non sono così antipatica da puntualizzare la cosa con il cameriere, né con i miei commensali, a parte alcuni selezionati e “malati” come me, con i quali passo quasi la totalità delle serate.
Il più delle volte rido da sola, tra me e me, quando qualche errore compare, tuttavia ce n'è uno in particolare che mi infastidisce, ma che non viene compreso da molti.

Il polipo NON è il polpo. E viceversa.

Perchè? Sono due animali diversi, appartengono a due gruppi tassonomici completamente differenti e, soprattutto, malgrado la derivazione del nome dal greco sia la stessa, una sola vocale fa una grande differenza tra i due.
Ci tengo a puntualizzare che non ho riscontrato il problema solo in ristoranti appartenenti a stranieri, magari poco familiari con la lingua italiana, ma anche in moltissimi luoghi di ristoro italiani (e che si vantano di esserlo). Per dirne una, il polipo con le patate è un piatto quasi fisso come antipasto in molti ristoranti di gran lusso, anche se quello che vi servono è un polpo con patate.
La distinzione principale che va fatta è già quella che vi fa fare bella figura con gli amici: il polpo è un mollusco, il polipo è uno cnidario, cioè è della stessa famigliola delle meduse.
Il polipo, ad essere ancora più precisi, può essere uno degli stadi di sviluppo di alcuni tipi di medusa, oppure può rimanere polipo tutta la vita, dipende dal gruppo a cui appartiene.
Ad esempio, nella classe degli Antozoi, il polipo mantiene per tutta la vita la sua forma cilindrica con tentacoli apicali; è definito organismo bentonico sessile, cioè vive a stretto contatto con il substrato e non si sposta. Volete degli esempi? Gli anemoni di mare (sì, anche quella dove viveva Nemo nel cartone animato) oppure i coralli. La barriera corallina in realtà è un gigantesco condominio in cui vivono insieme degli organismi multicellulari e geneticamente identici grandi ognuno pochi millimetri. Ogni polipo è in grado di secernere una “placca” basale calcarea in cui si ritira nel caso venga “infastidito”. Negli anni, le placche formate dai vari polipi di generazione in generazione si sono accumulate l'una sull'altra ed hanno dato luogo alla barriera corallina.

Polypen einer Gorgonie
Polipi

Il polpo, invece, è un mollusco cefalopode. A questo punto mi sembra chiaro che le dimensioni non siano le stesse del polipo: un polpo può arrivare a misurare 25 centimetri solamente nel manto e in media dai 40 ai 100 centimetri per quel che riguarda i tentacoli.
Per dire, in “Alla ricerca di Nemo” un polpo era compagno di classe del pesciolino e parlava anche!
Non per fare torto ai piccoli polipi, ma il polpo, anche detto piovra, così ci togliamo ogni dubbio, è considerato uno degli invertebrati più intelligenti; ha dimostrato in molti test di saper apprendere e riconoscere per associazione, anche osservando altri polpi, fatto piuttosto strano dato che è un animale solitario e schivo. Altri test dimostrano che se date al polpo un barattolo chiuso con dentro una preda, lui riuscirà ad aprirlo.
Stupefacente se penso che certe volte io non riesco ad aprire un barattolo di sottaceti a mani nude.
Quello che mangiamo con le patate e che ha i tentacoli con le ventose, perciò, è un polpo o una piovra: facciamocene una ragione e correggiamo i menù.
Che diventi virale la distinzione tra i due!

Octopus vulgaris EL16p
Polpo o piovra