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domenica 21 giugno 2015

Il vino dell' Ultima Cena

Se pensiamo a Leonardo e alla città di Milano è piuttosto normale che alla nostra mente arrivi quasi immediatamente l’immagine dell’Ultima Cena, lo spettacolare affresco conservato nel refettorio della Chiesa di Santa Maria delle Grazie.
Da poche settimane è possibile collegare il genio di Leonardo anche alla sua Vigna, riportata all’antico splendore ed aperta in occasione di Expo 2015.
Leonardo vignaiolo? Ebbene sì, ovviamente non per necessità, piuttosto per hobby.
Nell'anno 1498, infatti, Ludovico Il Moro gli concesse la proprietà di una vigna di 16 pertiche (più o meno rettangolare), larga 60 metri e profonda 175 metri (poco più di un ettaro).
La vigna si trovava nei giardini alle spalle della chiesa che tuttora ospita il Cenacolo, dietro alla Casa degli Atellani.

Cortile interno della Casa degli Atellani

Nel 1500, tuttavia, le truppe del re di Francia sconfissero Il Moro e Leonardo dovette lasciare Milano.
Decise allora di affittare la sua vigna al padre del suo allievo prediletto Gian Giacomo Caprotti, detto il Salaì. Nel tempo, Leonardo rimase sempre molto legato al suo ettaro di terra, tanto da citarlo anche nel suo testamento, lasciandolo in eredità ad un suo fedele servitore e proprio al Salaì.
Questa volta non si può citare il famoso “33, 33 e 33” del celeberrimo film “Non ci resta che piangere”, piuttosto ci dovremo adattare ad un fifty fifty.

La vigna cadde presto nell’oblio, le sorti alterne degli abitanti della casa e la sua posizione non le furono propizie. Nel 1919 l’architetto Portaluppi iniziò la ristrutturazione della Casa degli Atellani e, nello stesso periodo, l’architetto Luca Beltrami documentò l’esatta posizione di quel che rimaneva della vigna. Una benedizione per quegli stessi filari che verranno, negli anni successivi, seppelliti dalle macerie durante il bombardamento di Milano della Seconda Guerra Mondiale.

Perché Rifiuto Biologico si interessa della Vigna di Leonardo se ormai è sepolta nell’oblio? Perché non lo è più!
Grazie ad una collaborazione con l’Università degli Studi di Milano e per volontà della Fondazione Portaluppi e degli attuali proprietari della Casa degli Atellani, è stato possibile recuperare i camminamenti della vigna. Dagli scavi sono stati recuperati dei campioni di materiale organico appartenenti alla specie Vitis vinifera.
Abbiamo già detto in passato che il DNA di ognuno di noi ci identifica quasi senza ombra di dubbio e che nel nostro corredo genetico abbiamo anche l’impronta delle generazioni passate. Lo stesso succede per tutti gli esseri viventi, che siano piante, animali e batteri.
Grazie a dei marcatori genetici, che possiamo immaginare come piccole bandierine rosse, possiamo ricostruire la nostra provenienza oppure, nel caso di campioni dei giorni nostri, capire da chi discendono.
Alcuni geni, infatti, si tramandano di generazione in generazione, ovviamente mutando nel corso della trasmissione, come dev’essere.
Senza scendere nel particolare, gli studi che sono stati svolti sui campioni organici di vite ritrovati hanno reso possibile il confronto con alcuni vitigni odierni. Tra molti, il vitigno di Leonardo è molto vicino ad un particolare tipo di Malvasia: la Malvasia di Candia Aromatica, molto popolare all’epoca.

La Vigna

Gli scavi nel sito, rinvenuto anche grazie alla localizzazione fatta da Beltrami negli anni 20, sono stati supportati dalla perizia del pedologo (non è una parolaccia, tranquilli) Rodolfo Minelli che ha aiutato a preparare il terreno dove sarebbero state accolte le nuove piante di vite. Su un binario parallelo, la genetista Serena Imazio e il professor Attilio Scienza, esperti in DNA della vite, hanno contribuito, con la loro competenza pluriennale nel campo, a ricostruire il profilo genetico della vite procedendo a dei confronti tra i campioni rinvenuti nella vigna e i profili relativi a varietà già coltivate ai tempi di Leonardo.


Una volta risaliti al vitigno, sono stati fatti nascere in serra 60 esemplari di vite, in seguito portati nel giardino della Casa degli Atellani e lì piantumati per ricostruire la Vigna di Leonardo nel luogo in cui essa era sempre esistita.

Un piccolo miracolo per noi, dunque, poter vedere la vigna come se fossimo ancora ai tempi della realizzazione del Cenacolo. Una grande occasione per poter assistere alla crescita di un vigneto come se fossimo lì insieme con uno dei più grandi geni mai esistiti.

domenica 2 novembre 2014

Ed è l'odore dei limoni

"Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni."

Foto di Gea

Nelle aree in cui si coltivano gli agrumi, un minuscolo artropode semina il panico. L'arancio amaro, il pompelmo, il cedro, ma soprattutto il profumatissimo limone sono le piante attaccate da un acaro chiamato Eriophyes sheldoni, noto ai più come l'acaro delle meraviglie.
Questo piccolo animale (0,1 / 0,2 mm di lunghezza da adulto) predilige alcune varietà di agrumi in generale e di limoni in particolare.
Esso trascorre l'inverno all'interno delle gemme della pianta finchè, al momento della ripresa vegetativa, raggiunge le nuove gemme e si ciba di esse pungendole.
Le gemme a fiore punte dal piccolo acaro daranno origine a fiori che cadranno precocemente, mentre quelle che da cui nascerà il frutto daranno una “prole” deformata, tentacolare, dall'aspetto di un polpo. Questi frutti sono definiti meraviglie.
Dove il frutto viene punto dagli acari, infatti, non si sviluppa,
a causa di alcune sostanze contenute nella saliva del piccolo artropode, mentre continua tutt'intorno la sua crescita.





In condizioni favorevoli l'acaro si riproduce ogni 15 giorni nel periodo estivo e ogni 20- 30 giorni nella stagione invernale. Di solito esso viene trasportato da una coltivazione all'altra attraverso il vento o a causa dello spostamento di attrezzature vivaistiche. Proprio la sua capacità di riprodursi velocemente durante l'estate ed il fatto che in inverno viva riparato nelle gemme lo rendono un temibile avversario per le coltivazioni di limoni ed agrumi più in generale.
In un passato non lontano le meraviglie sono state prese come simbolo della lotta contro l'inquinamento, senza sapere che in realtà erano il frutto, è proprio il caso di dirlo, di un'infestazione di parassiti: gli acari eriofidi di cui abbiamo parlato oggi.

Da qualche parte, ultimamente, ho letto questa frase: “L'istruzione si paga una volta sola, l'ignoranza si paga tutta la vita”.


"Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno piú languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità."



Testo poesia da "I limoni" di Eugenio Montale (Ossi di Seppia,1925).
Immagini personali e tratte da Wikipedia.

venerdì 26 settembre 2014

Foglie gialle giù
Equinozio d'autunno

Benvenuto autunno!
Quest'anno l'equinozio è avvenuto alle 2.29 del mattino del 23 settembre e così, anche se ci siamo a malapena accorti dell'estate, andiamo già verso il freddo (vedremo quanto) inverno. Siamo, tuttavia, entrati in una stagione spettacolare, a modo suo. Se frequentate parchi, giardini, campagne, non può sfuggirvi lo spettacolo delle foglie che stanno iniziando ad assumere i colori più caldi dell'anno. Sembra quasi di ricordare il calore dell'estate attraverso il giallo, l'arancione ed il rosso scuro delle foglie di molti alberi.
Molte madri, poi, saranno presto coinvolte nel sadico giuoco delle maestre, le quali daranno ai figli la temuta consegna di raccogliere almeno una ventina di foglie di alberi diversi per attaccarle poi in quello che potremmo definire un “fogliario”. A questo punto, poi, non sarà inusuale vedere folle di genitori prendere d'assalto parchi e giardini per accaparrarsi le ambite foglie, a costo anche di iniziare un piccolo contrabbando tra i genitori che vivono in città e quelli che invece stanno in campagna (e che, naturalmente, di solito hanno occasione di frugare in una maggior quantità di giardini). Alla fine, di solito, tutti i bambini della stessa classe hanno le stesse foglie appuntate sui loro quaderni, vuoi per il mercato nero, vuoi perché i genitori hanno vagato raminghi negli stessi posti.

Dopo tanti anni fuori dalla scuola, mi sono posta un interrogativo.

Perché le foglie in autunno ingialliscono e cadono?

Partiamo dalla pianta: come funziona, a grandi linee?

Tutti sappiamo che le piante in generale svolgono la fotosintesi clorofilliana, cioè trasformano l'acqua e l'anidride carbonica in carboidrati ed ossigeno.
L'ossigeno viene rilasciato nell'ambiente circostante, i carboidrati vengono portati agli organi di immagazzinamento della pianta: il tronco, i rami, le radici. Saranno queste riserve a mantenere in vita la pianta durante l'inverno e promuovere l'inizio della crescita l'anno successivo.
La fotosintesi è un processo chimico svolto per la maggior parte nelle foglie, dove si trovano particolari organelli, chiamati cloroplasti, che contengono la clorofilla.
Quest'ultima è una molecola capace di catturare la luce e, per farla semplice, trasferire l'energia da essa derivante ad alcuni sistemi che effettuano la vera e propria fotosintesi.
Per questo motivo si dice che quest'ultimo processo avviene solo in presenza di luce.
Le foglie sono verdi perché ricchissime di clorofilla, immagazzinata nei cloroplasti.
la fase di crescita delle piante, cioè la primavera e l'estate, la clorofilla viene sostituita continuamente nelle foglie, dato che essa si disgrega e scompare ad un ritmo molto alto.
In autunno le notti iniziano a farsi più lunghe e la pianta si prepara alla stagione fredda sviluppando, alla base di ogni foglia, uno strato di sughero che pian piano separa il picciolo dal ramo. Il tentativo della pianta di disfarsi delle foglie ha una finalità ben precisa: proprio come un animale che va in letargo, anche la pianta in inverno deve rallentare il suo metabolismo e lo fa traspirando meno. Poichè gli organi per eccellenza della traspirazione sono le foglie, la pianta le perde, lasciando il compito a tronco e rami e diminuendo in questo modo anche il richiamo di acqua dalle radici.
Lo strato di sughero, infatti, blocca il flusso di nutrienti che nella bella stagione sono stati inviati alla foglia. Oltre ai nutrienti, essa ha ricevuto nello stesso periodo anche una grande quantità di clorofilla, dato che quest'ultima deve essere continuamente sostituita, man mano che la foglia prende parte ai processi di fotosintesi. Infatti, l'esposizione alla luce deteriora lentamente le molecole di clorofilla, proprio come un foglio colorato perde le sue tinte, se è esposto al sole.
Dunque, con l'allungarsi delle notti ed il volgere delle stagioni verso il freddo, la colorazione verde viene sostituita da colori che erano presenti anche prima, ma venivano mascherati dall'alta concentrazione di clorofilla presente. Ad esempio, inizieremo a vedere il giallo e l'arancione derivanti dai caroteni e dalle xantofille. I pigmenti definiti antocianine di solito non sono presenti nella bella stagione, ma vengono “costruiti” a partire dai carboidrati che restano intrappolati nella foglia. Lo strato di sughero alla base del picciolo non permette il deflusso verso la pianta di zuccheri ed amido.
Gli scienziati ormai conoscono le motivazioni per il cambiamento di colore del fogliame in autunno. Xantofille e carotenoidi possiedono ancora la capacità, seppur minima rispetto alla clorofilla, di catturare l'energia della luce solare. Quello che ancora rimane poco chiaro è il motivo per cui la pianta dovrebbe lasciare nelle foglie così tanti carboidrati prodotti dalla fotosintesi, permettendo la formazione di antocianine.
Ad autunno inoltrato il sughero che separa la foglia dalla pianta diventa più spesso, fino al momento in cui la foglia si stacca dalla pianta e cade a terra, per la gioia dei genitori e del “fogliario” dei bambini.


venerdì 19 settembre 2014

Una storia di fantasmi ed avocado

Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un post del sito Brainpickings riguardante un libro, scritto da Connie Barlow, intitolato “The ghosts of evolution”.


Non so ancora dare un'opinione completa su tutto lo scritto, tuttavia ho letto con interesse, forse anche con il solito scetticismo, le prime pagine e sono rimasta colpita da quello che l'autrice racconta riguardo l'avocado.
Questo frutto, proveniente dall'America Centrale, proviene da un albero che è stato chiamato, nella nomenclatura scientifica, Persea americana. Quasi tutti almeno una volta nella vita abbiamo guardato al supermercato questi frutti piriformi, di un verde brillante e dalla buccia lucida e liscia. In pochi l'abbiamo portato a casa per farne qualcosa in cucina. Tuttavia, superato lo scoglio dell'acquisto, la sorpresa che ci aspetta dentro all'avocado è un unico grande seme scuro o, se ci riflettete bene, un enorme seme. Lì dentro la pianta ha nascosto il germe del nuovo albero ed anche tutta una serie di risorse affinché, nel caso il frutto cadesse a terra e non avesse modo di germinare, esso possa almeno contare sulle riserve immagazzinate nel seme stesso anche fino ad un anno intero.


Tutto ciò è molto commovente da parte di mamma avocado, se però facciamo quattro passi nella botanica, ci accorgiamo subito che c'è qualcosa che non va.
Il proposito di tutte le piante è produrre moltissimi semi che poi verranno dispersi in tanti modi: uno fra tutti, gli animali che mangeranno il frutto della pianta, lo digeriranno e faranno funzionare il loro intestino a distanza dalla pianta madre. Un altro albero crescerà lì dove l'animale ha lasciato i suoi escrementi.
Ora ditemi voi, quale animale vivente oggi può ingollare tutto intero il seme dell'avocado? Diciamo tutto intero perché la pianta ha evoluto un accorgimento per cui, se il seme viene frantumato, si liberano delle tossine che danno un cattivo sapore. Mamma avocado fa le cose per bene e, per i motivi esposti sopra, non permette che il seme possa essere rotto, mettendo a repentaglio le risorse fornite all'embrione per la sua delicata crescita.
La risposta è, allo stesso tempo, semplice ed affascinante.
L'avocado è nato e cresciuto nel Pleistocene ed ha evoluto le fattezze del suo frutto per irretire la megafauna vivente nella stessa epoca, attirata dalla sua polpa brillante e gustosa e perfettamente in grado di ingoiare un seme di quelle proporzioni senza soffocare e senza provare nemmeno a frantumarlo. Il loro esofago ed in generale il loro apparato digerente erano del tutto capaci di digerire la polpa e far uscire alla fine del “tubo” il seme, insieme a tutto il risultato della digestione, magari a qualche chilometro di distanza. La volontà dell'albero di avocado di propagare la propria progenie era fatta.
Per megafauna intendiamo, per fare lo stesso esempio del libro di cui parlavo all'inizio, dei Gomfoteridi, animali simili agli odierni elefanti, estinti ormai dalla fine del Pleistocene.



Anche i bradipi terrestri (ground sloths) erano tra coloro che si cibavano di avocado senza problemi, ma anch'essi sono ormai estinti.


Facendo due conti, quindi, l'autrice Barlow, sulla scia degli studi proposti dal biologo Daniel H. Janzen, definisce casi come quello dell'avocado degli “anacronismi evoluzionistici”: una pianta ha evoluto le proprie caratteristiche per coniugarle con quelle dei consumatori del frutto, in questo caso i consumatori del Pleistocene. Purtroppo, gli animali in grado di disperdere il loro seme lontano non esistono più da tempo.
Per fortuna dell'avocado, tuttavia, la stessa polpa del frutto ha richiamato un gran numero di consumatori nel tempo, dato il suo aspetto succulento ed i suoi interessanti valori nutrizionali e, quindi, ancora oggi possiamo mangiare la guacamole. 

“Un avocado è fatto per un mondo che non esiste più. Il frutto di questa pianta è un anacronismo ecologico.
I suoi partner mancanti sono i fantasmi dell'evoluzione.”
- Connie Barlow -

venerdì 5 settembre 2014

Labirinto di mais e di ipotesi

Questa settimana torniamo a parlare di mais, dopo il post sull'installazione (!!) Quantomais a Milano.
Rifiuto Biologico ha scoperto che nelle Marche, paese di avidi mangiatori di ciauscolo e olive e bevitori di ottimo vino, è stato "costruito" un labirinto di mais che fa concorrenza allo stretto corridoio difronte al Castello Sforzesco.
A Senigallia, non lontano dal casello e dal centro città, alcuni baldi giovani riuniti nella società cooperativa Hort hanno costruito un grande labirinto, fatto appunto di mais.
Cosa si va a fare in un labirinto di mais? Si gioca a tornare bambini e si fanno divertire quelli che bambini ancora lo sono, facendo incontrare loro Alice e la Regina di Cuori, ad esempio. Tanto di cappello a chi si è inventato l'idea della caccia al tesoro settimanale nel labirinto e la notte del Minotauro, gli eventi sotto le stelle e la notte di paura che ci sarà proprio questo sabato sera.
Onore al merito anche perchè questa non è stata di sicuro un'estate facile da gestire, con ripetuti periodi di pioggia che hanno costretto gli operatori a chiudere il labirinto perché impraticabile causa fango. Oltre a ciò, siccome alle Marche non manca mai qualche sconvolgimento naturale, proprio mentre il mais stava crescendo Senigallia è stata colpita dall'alluvione, che ha creato difficoltà al grande progetto.
Se volete perdervi un po' avete tempo fino al 14 settembre per approfittare dell'occasione (orario di apertura 17/23). Intanto guardate questo divertente video fatto durante la costruzione del labirinto.



Il mais fu l'unico cereale che ebbe una vasta diffusione nel Vecchio Continente dopo la scoperta delle Americhe, poiché aveva una resa molto maggiore rispetto agli altri cereali comunemente usati. Tuttavia, la sua ascesa si accompagnò alla diffusione di una malattia che seminò il panico sociale, dato che le sue cause erano ignote.
Tra il XVIII ed il XIX secolo anche l'Italia settentrionale, come molti altri paesi europei e dell'America del Nord, fu sconvolta da un'epidemia di pellagra, termine preso in prestito dal dialetto lombardo (pelle agra, ruvida), che rapidamente si diffondeva negli strati più poveri della popolazione e sembrava un morbo misterioso ed incurabile. Si scatenarono le ipotesi sull'eziologia e la più probabile sembrò essere l'ingestione di pannocchie marce.
I malati di pellagra presentavano le cosiddette 3D: dermatite, diarrea e demenza. Quelli dei paesi anglosassoni ne potevano aggiungere una quarta per death, morte, a cui quasi tutti i pazienti arrivavano dopo circa 3 o 4 anni dall'inizio dei sintomi. Va da sé che i poveretti soffrivano terribilmente e non potevano esporsi a lungo alla luce, poiché avevano una pelle sensibilissima.
La situazione era simile in molti paesi, anche negli Stati Uniti, in cui nel 1914 un brillante scienziato, il dottor Goldberger, volse lo sguardo verso questa nuova epidemia ed iniziò anche lui a cercarne le cause. Gli studi da lui compiuti in orfanotrofi e prigioni lo portarono a considerare falsa l'ipotesi ventilata da molti, secondo cui la malattia sarebbe stata infettiva, cioè originata da un batterio.
La sua osservazione era molto semplice: i detenuti o i bambini colpiti da pellagra non la trasmettevano mai al personale che si occupava di loro.
Sembrava una considerazione banale, ma l'esperienza di Goldberger in materia di epidemiologia lo rese sicuro di ciò. Inoltre, gli fece volgere lo sguardo alla dieta dei pazienti ed iniziò a pensare che la vera causa fosse una malnutrizione. Diminuendo la presenza di mais nella loro alimentazione e, dunque, sottoponendo i suoi “soggetti” ad una dieta più ricca di carne, latte e verdure, ottenne miglioramenti e guarigioni. A questo punto, però, nessuno gli credeva, perché le nuove idee hanno sempre difficoltà a farsi strada nell'opinione comune.
Che cosa fece, allora, il dottor Goldberger? Si fece iniettare il sangue di un malato di pellagra per dimostrare che non si trattava di un'infezione e, indovinate un po', sia lui che il suo staff non contrassero la malattia.
Malgrado ciò, i medici rimasero piuttosto scettici riguardo alle cause alimentari della pellagra. Ad ogni modo, Goldberger continuò per tutta la vita a difendere la sua idea e ad usarla come bandiera per chiedere a gran voce miglioramenti delle condizioni di vita ed alimentari delle fasce più povere della popolazione.
In Italia l'idea di Goldberger sarebbe stata ampiamente dimostrata, dato che la maggior parte dei pazienti apparteneva a fasce povere di popolazione, le quali basavano la loro dieta interamente sul mais. In Veneto, regione in cui si riscontrarono sempre i picchi più alti di presenza di pellagra, i contadini si cibavano di circa due o tre chili di polenta al giorno, non avendo altro di cui nutrirsi.
Nel corso del XX secolo anche in Europa la ricerca fece dei progressi notevoli, arrivando a confermare che la causa della pellagra era l'insufficienza nella dieta di niacina (vitamina PP) o dell'aminoacido triptofano, necessario alla sua costruzione.
Il mais da solo non è un alimento completo, perciò chi si cibava solo di esso andava incontro ad un grave deficit nutrizionale. La soluzione per arginare l'epidemia era variare la propria dieta, integrandola con altri alimenti che avrebbero fornito vitamina PP e triptofano.
Ora, però, sorge spontanea una domanda: le popolazioni dell'America Centrale che da sempre hanno basato la loro dieta sul mais, come facevano ad essere sane o comunque poco intaccate dalla malattia?
La risposta giace nel loro bagaglio culturale. Da sempre i popoli azteco e maya avevano come tradizione quella di bollire il mais con acqua e bicarbonato di calcio e poi lasciarlo riposare per una notte. Il processo si chiama nixtamalizzazione ed aiuta il mais a liberare niacina, rendendola disponibile per il consumo di chi ingerisce l'alimento. Ovviamente al di fuori dell'America Centrale la procedura non era nota, perciò il mais veniva solamente bollito in acqua, con le infauste conseguenze che ora conosciamo.
Per concludere, nel labirinto delle ipotesi, a volte la soluzione giunge inaspettata da un angolo che non avevamo mai pensato di esplorare.

giovedì 14 agosto 2014

Mai dire mais - Campo di Granturco in centro a Milano

Metti una mattina in cui devi andare a fare una commissione.
E' Agosto e, anche se non fa caldissimo, sudi abbastanza, ma non demordi e confidi nelle ultime energie del caffè bevuto un'ora prima. Dove possibile, cerchi l'ombra, e dove non è possibile acceleri l'andatura nei tratti al sole. Giusto così, per aumentare la sudorazione.
Sei quasi arrivata a destinazione, ancora pochi metri e potrai farti accettare alla nuca da quell'amichevole aria condizionata all'ingresso di ogni negozio.
Ti giri un attimo a sinistra e vedi … un campo di mais!
No, no, un momento, qui siamo davanti al Castello Sforzesco, in pieno centro a Milano, non in una scena di Children of the Corn (Grano rosso sangue nella versione italiana).
Sarà un colpo di calore? Saranno ormai esaurite le forze derivanti dal caffè? Tutti dicono che la colazione è importante, sarà dunque la maledizione del nutrizionista o del dietologo che si abbatte su di me?
Niente di tutto ciò: il campo di mais c'è davvero e ci sono anche un sacco di turisti che si fotografano con lo sfondo del Castello e il mais; in effetti è una foto ricordo piuttosto strampalata.
Della serie: quest'estate sono stata a Milano e in un campo di mais. Nello stesso momento. 

Foto di Gea

Si tratta di un'installazione per Expo e si chiama Quantomais.

Ogni volta che sento dire “installazione” rabbrividisco. Probabilmente perché non sono del settore. La maggior parte non riesco a capirla, mi sembrano cose messe lì tanto per occupare spazio, anche perché non è che tu le guardi e basta. Bisogna leggere i cartelli esplicativi, di solito circa una decina, prima di comprendere il volo pindarico fatto dall'autore per arrivare a concepire una cosa che a te assomiglia ad uno scivolo ed invece rappresenta l'evoluzione vista con gli occhi di un capodoglio.
Torniamo a Quantomais. Si tratta di un campo di mais di 360 metri quadri messo a dimora a Giugno ad Abbiategrasso e trasportato in centro nottetempo a fine Luglio in vari bancali. Al momento viene curato lì, davanti al Castello, con un impianto di microirrigazione.
I bancali di mais sono disposti in modo da costituire corridoi e stanze interne, dove sono ospitate anche piante aromatiche e piante da orto.
In questo spazio si svolge un calendario di eventi densissimo, a base di musica, letture bendati e laboratori per i più piccoli.
Ora, di tutte le installazioni che ho visto in vita mia, almeno questa si configura come uno spazio per eventi, da vivere, un po' per tutte le età. Devo dire che trovarsi difronte ad un campo di mais all'improvviso nel centro di una città è piuttosto curioso. Se volete visitarlo, comunque, affrettatevi: a fine Agosto il campo verrà “smontato” ed i bancali con le piante ceduti a giardini, scuole ed università che ne faranno richiesta. Proprio così, esiste un bando di adozione per “riciclare l'installazione” e potete trovare tutti i dettagli nel sito internet dedicato.
Io comunque da Quantomais sono capitata per caso e sono rimasta colpita, anche se per le installazioni non ho proprio la passione!

Abbiamo già parlato di mais colorato in un post di Aprile.
Oggi ricorderemo due vignette che a me fanno sempre ridere.

"Ti avevo detto di mettere la protezione solare!"
"Fa caldo fuori?"
"Oh, stai zitto!"




Com'è fatto un chicco di mais e, soprattutto, cosa succede quando facciamo il pop corn?
Il chicco è costituito da tre strati.
Il più interno si chiama endosperma ed è quello che costituisce la maggior parte del chicco. Qui c'è soprattutto amido in granuli, inserito in una matrice proteica, ed una piccola parte di oli ed acqua.
Lo strato intermedio è definito germe e si può dividere in tre parti:
  • quella che, se piantiamo il chicco, darà origine alle foglie;
  • quella che costituirà le radici della nuova pianta;
  • la terza parte, fatta di oli vegetali, che darà energia alla pianta durante la crescita.
Lo strato più esterno, molto resistente, si chiama pericarpo e si compone essenzialmente di cellule morte e strati spugnosi che servono ad assorbire l'acqua necessaria per la germinazione.
Infine, possiamo inserire nella nostra descrizione anche la parte apicale del chicco, costituita di materiale fibroso che ha la funzione di connettere il chicco alla pannocchia.
Quando si fa il pop-corn succede una cosa piuttosto semplice a raccontarla così: il chicco esplode e si rivolta, l'interno esce e l'esterno si accartoccia su sé stesso rimanendo nella parte centrale del pop-corn.

Perchè accade? La causa sta nella struttura del chicco stesso, che si comporta come una piccola pentola a pressione, ma alla fine deve arrendersi alle leggi della fisica.
Una piccola parte dell'acqua contenuta nell'endosperma evapora e fa aumentare la pressione tra le pareti del chicco, le quali sono resistenti e dunque non cedono, creando l'effetto pentola a pressione accennato sopra. Il vapore rovente scioglie l'amido in granuli e lo fa mescolare con l'acqua allo stato liquido ancora presente, non evaporata a causa dell'aumento di pressione di cui parlavamo prima.
Nel frattempo, la temperatura interna del chicco continua ad aumentare, ed essendo il volume fisso, poiché è l'interno del chicco stesso, anche la pressione nell'endosperma aumenta, finchè il pericarpo non riesce più a sopportarla ed esplode.
L'acqua allo stato liquido evapora e fa raffreddare l'amido, che solidifica in schiuma bianca: ecco servito il vostro pop-corn!
Cosa c'è di più bello rispetto a pensare a questo piccolo miracolo che unisce la perfezione di un chicco di mais con il relax di una serata davanti ad un bel film?
Un video alla moviola dei chicchi che scoppiano!
Godetevelo e la prossima volta fate una bella figura con gli amici!

martedì 24 giugno 2014

Solstizio d' Estate ai piedi di due Ginkgo biloba

Cari lettori di Rifiuto Biologico, è da un paio di settimane che non mi leggete. 
Invece di tediarvi con scuse e magari bugie, spero che possiate essere felici di sapere che da oggi il blog verrà arricchito con tantissimi argomenti che derivano proprio dalle mie settimane di silenzio. 
  

Prima di tutto, benvenuta Estate!
Il 21 giugno, alle ore 10.51, c'è stato il Solstizio d'estate, il giorno più lungo dell'anno e di conseguenza la notte più corta. Una giornata da reclusi per i vampiri, bisogna considerarlo.

Orto Botanico di Brera
Foto di Gea

Il 21 ed il 22 giugno si è svolta, proprio in occasione di questa ricorrenza, la Festa del Solstizio d'Estate negli Orti Botanici della Lombardia (www.reteortibotanicilombardia.it), arrivata alla sua undicesima edizione.
Gli Orti hanno aperto le porte al pubblico accogliendolo con laboratori, visite guidate, mostre ed eventi per scoprire le meraviglie della botanica ed affascinare persone di ogni età.
Per quanto mi riguarda, ho avuto l'occasione di visitare l'Orto Botanico di Brera e di portarmi a casa un'esperienza unica … ed i semi di una piantina che probabilmente farà la gioia della mia mamma, dato che a casa mia ultimamente muoiono anche le piante grasse.
L'Orto Botanico si trova nel cuore del centro storico di Milano.
Fin dall'ingresso sembra di arrivare in un posto benedetto, senza il frastuono del traffico e con alberi altissimi a fare da tetto. Non si tratta di un posto immenso, sono soltanto 5000 metri quadrati alle spalle del palazzo che ospita la famosa Pinacoteca di Brera.

Retro del Palazzo della Pinacoteca di Brera
Foto di Gea

L'Orto nella sua attuale configurazione fu fondato da Maria Teresa d'Austria nel 1774 con scopi scientifici e didattici. Nel sito web dedicato (www.brera.unimi.it) se ne possono leggere le alterne vicende fino alla riapertura, dopo il restauro, nel 2001.
La suddivisione fittizia in due parti fa sì che riusciamo ad ammirare per prime le aiuole recintate da mattoncini che risalgono all'epoca della sua fondazione e, in fondo, uno spazio circondato da alberi molto antichi, tra cui due esemplari di Ginkgo biloba, la cui foglia è anche il simbolo dell'Orto stesso.
A questo punto dovreste esclamare: “Ma certo! Il Ginkgo! Ne abbiamo già letto in uno degli scorsi post!”
Lo state facendo? Bravissimi!
Non lo state facendo? Va bè, erano soltanto due righe, potrebbe esservi passato sotto al naso senza che ve ne siate accorti.
Rimediate rileggendo il post sul pesce elefante.

Ginkgo biloba
Philipp Franz von Siebold and Joseph Gerhard Zuccarini
Flora Japonica, Sectio Prima (Tafelband)

Il Ginkgo biloba è un albero originario della Cina. Esisteva già in epoca mesozoica, con le sue foglie divise in due e l'eleganza del suo tronco.
Si tratta di un fossile vivente, un organismo il cui DNA è rimasto al riparo da molti fenomeni mutazionali, rendendo il genoma degli alberi di adesso sovrapponibile a quello degli alberi del Mesozoico.
Qui all'Orto Botanico di Brera si possono ammirare due esemplari importati dalla Cina nel 1775, un maschio ed una femmina. Infatti, il Ginkgo è una pianta che si definisce dioica, cioè possiede strutture fertili maschili e femminili su piante diverse, diversamente da molte altre piante che invece sono maschi e femmine insieme sulla stessa pianta, in modo piuttosto pratico per la loro riproduzione.
L'impollinazione dei fiori è anemofila, cioè dipende dal vento e non, ad esempio, dagli insetti, come siamo forse più abituati a pensare. Questo tipo di impollinazione è considerato tipico di piante molto primitive, per l'ovvia ragione che garantisce un minor successo nella fecondazione rispetto a quanto avviene con il trasporto del polline da parte degli insetti.
Da questo derivano due conseguenze:
  • la pianta deve produrre una quantità molto maggiore di polline per assicurarsi tante possibilità di discendenza;
  • la pianta non deve agghindarsi per attirare gli insetti e favorire l'impollinazione, né produce nettare. Le piante con fecondazione anemofila hanno però bisogno del vento per portare a termine la loro missione e per questo hanno evoluto altri stratagemmi per moltiplicare le loro possibilità.

Il Ginkgo viene considerata una pianta dalle potenzialità antiossidanti, poiché contiene molti polifenoli. Ancora non è stato confermato scientificamente il fatto che le stesse sostanze possano aiutare anche nei disturbi della memoria, come la malattia di Alzheimer.
Sembra invece che il consumo di Ginkgo biloba aiuti la circolazione del sangue, motivo per cui è spesso tra i componenti di rimedi naturali che contrastano la fragilità capillare e la comparsa di varici.
Per lungo tempo il Ginkgo biloba è stato coltivato dai monaci buddisti cinesi e non è raro trovarlo accanto ai templi o come ornamento nei giardini orientali.
I suoi principi attivi ne facevano l'ingrediente principale del tè dell'eterna giovinezza e la stessa foglia bilobata è stata associata nella filosofia orientale al principio dello Yin e dello Yang, secondo cui la realtà è governata dagli opposti (basso e alto, maschio e femmina, bene e male).
Una pianta molto misteriosa, conservata in uno scrigno che sembra impossibile si trovi nel centro storico di Milano.
La bellezza di una visita all'Orto Botanico di Brera, oltre alla possibilità di aggirarsi liberamente tra le aiuole ed alle tantissime attività che esso offre per tutte le età ed in tutte le stagioni, sta nel fatto che nei cartelli esplicativi sparsi qua e là c'è sempre una frase di un poeta o di uno scrittore “a tema”.
Vi propongo quella sul Ginkgo biloba:

Quando la bomba atomica trasformò la città di Hiroshima in un deserto annerito,
un vecchio ginkgo cadde fulminato vicino al centro dell' esplosione.

L'albero rimase calcinato come il tempio buddista che proteggeva.

Tre anni dopo, qualcuno scoprì che una lucina verde spuntava nel carbone. Il tronco morto aveva buttato fuori un germoglio. L'albero rinacque, aprì le braccia, fiorì.

Quel superstite della strage è ancora là. Perché si sappia.”



- Eduardo Galeano -