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domenica 21 giugno 2015

Il vino dell' Ultima Cena

Se pensiamo a Leonardo e alla città di Milano è piuttosto normale che alla nostra mente arrivi quasi immediatamente l’immagine dell’Ultima Cena, lo spettacolare affresco conservato nel refettorio della Chiesa di Santa Maria delle Grazie.
Da poche settimane è possibile collegare il genio di Leonardo anche alla sua Vigna, riportata all’antico splendore ed aperta in occasione di Expo 2015.
Leonardo vignaiolo? Ebbene sì, ovviamente non per necessità, piuttosto per hobby.
Nell'anno 1498, infatti, Ludovico Il Moro gli concesse la proprietà di una vigna di 16 pertiche (più o meno rettangolare), larga 60 metri e profonda 175 metri (poco più di un ettaro).
La vigna si trovava nei giardini alle spalle della chiesa che tuttora ospita il Cenacolo, dietro alla Casa degli Atellani.

Cortile interno della Casa degli Atellani

Nel 1500, tuttavia, le truppe del re di Francia sconfissero Il Moro e Leonardo dovette lasciare Milano.
Decise allora di affittare la sua vigna al padre del suo allievo prediletto Gian Giacomo Caprotti, detto il Salaì. Nel tempo, Leonardo rimase sempre molto legato al suo ettaro di terra, tanto da citarlo anche nel suo testamento, lasciandolo in eredità ad un suo fedele servitore e proprio al Salaì.
Questa volta non si può citare il famoso “33, 33 e 33” del celeberrimo film “Non ci resta che piangere”, piuttosto ci dovremo adattare ad un fifty fifty.

La vigna cadde presto nell’oblio, le sorti alterne degli abitanti della casa e la sua posizione non le furono propizie. Nel 1919 l’architetto Portaluppi iniziò la ristrutturazione della Casa degli Atellani e, nello stesso periodo, l’architetto Luca Beltrami documentò l’esatta posizione di quel che rimaneva della vigna. Una benedizione per quegli stessi filari che verranno, negli anni successivi, seppelliti dalle macerie durante il bombardamento di Milano della Seconda Guerra Mondiale.

Perché Rifiuto Biologico si interessa della Vigna di Leonardo se ormai è sepolta nell’oblio? Perché non lo è più!
Grazie ad una collaborazione con l’Università degli Studi di Milano e per volontà della Fondazione Portaluppi e degli attuali proprietari della Casa degli Atellani, è stato possibile recuperare i camminamenti della vigna. Dagli scavi sono stati recuperati dei campioni di materiale organico appartenenti alla specie Vitis vinifera.
Abbiamo già detto in passato che il DNA di ognuno di noi ci identifica quasi senza ombra di dubbio e che nel nostro corredo genetico abbiamo anche l’impronta delle generazioni passate. Lo stesso succede per tutti gli esseri viventi, che siano piante, animali e batteri.
Grazie a dei marcatori genetici, che possiamo immaginare come piccole bandierine rosse, possiamo ricostruire la nostra provenienza oppure, nel caso di campioni dei giorni nostri, capire da chi discendono.
Alcuni geni, infatti, si tramandano di generazione in generazione, ovviamente mutando nel corso della trasmissione, come dev’essere.
Senza scendere nel particolare, gli studi che sono stati svolti sui campioni organici di vite ritrovati hanno reso possibile il confronto con alcuni vitigni odierni. Tra molti, il vitigno di Leonardo è molto vicino ad un particolare tipo di Malvasia: la Malvasia di Candia Aromatica, molto popolare all’epoca.

La Vigna

Gli scavi nel sito, rinvenuto anche grazie alla localizzazione fatta da Beltrami negli anni 20, sono stati supportati dalla perizia del pedologo (non è una parolaccia, tranquilli) Rodolfo Minelli che ha aiutato a preparare il terreno dove sarebbero state accolte le nuove piante di vite. Su un binario parallelo, la genetista Serena Imazio e il professor Attilio Scienza, esperti in DNA della vite, hanno contribuito, con la loro competenza pluriennale nel campo, a ricostruire il profilo genetico della vite procedendo a dei confronti tra i campioni rinvenuti nella vigna e i profili relativi a varietà già coltivate ai tempi di Leonardo.


Una volta risaliti al vitigno, sono stati fatti nascere in serra 60 esemplari di vite, in seguito portati nel giardino della Casa degli Atellani e lì piantumati per ricostruire la Vigna di Leonardo nel luogo in cui essa era sempre esistita.

Un piccolo miracolo per noi, dunque, poter vedere la vigna come se fossimo ancora ai tempi della realizzazione del Cenacolo. Una grande occasione per poter assistere alla crescita di un vigneto come se fossimo lì insieme con uno dei più grandi geni mai esistiti.

giovedì 16 ottobre 2014

Wolverine, il ghiottone coi muscoli

Di X-Men abbiamo già parlato quando abbiamo preso in esame le mutazioni genetiche.
Tuttavia, da qualcuno bisogna pur partire per iniziare a parlarne nello specifico.
Dovendo scegliere, io, autrice del testo e orgogliosa proprietaria di tanti cromosomi XX, ho scelto Wolverine/Logan come protagonista di un post che scavi nello specifico di questo gruppo di strani personaggi.

Wolverine

L'ho scelto perchè, a mio parere, la storia di questo personaggio è una delle più interessanti e lo stesso si può dire del suo gene X: la capacità di rigenerazione praticamente illimitata. Spendiamo due parole sul fatto che milioni di persone sono corse a vedere “Wolverine – L'immortale” solo pochi mesi fa, ma nessuno ha mai pensato a come sarebbe stato più loffio un titolo come “Ghiottone – L'immortale”, vera traduzione del nome dell'animale da cui il nostro X-Man prende il nome.

Il ghiottone

Quindi smettiamola di immaginare che Wolverine sia un lupo piccolino; è un ghiottone, che per quanto si sforzi non sembra molto temibile, pur essendo un solitario e laborioso cacciatore di radici e pur riuscendo a spezzare il femore di una renna con un morso.
Inoltre, più che una buona vista ha un buon olfatto, fattore che impoverisce ulteriormente la figura di Hugh Jackman nel film, se andiamo a guardare. Tuttavia non dimentichiamo che il nome, a parte derivare da una leggenda indiana che viene raccontata a Logan dalla sua donna e che riguarda la triste storia d'amore della Luna e del suo amante, separati con l'inganno (ehm ehm, non siamo qui a svelare la trama, quindi passiamo sopra a questi dettagli), deriva dal fatto che un altro dei poteri di Wolverine è quello di avere dei sensi sviluppatissimi, come quelli dell' animale selvatico da cui prende il nome.
Ecco qua, dunque, che ci si presenta il nostro X-Man: un fattore di rigenerazione che gli permette di guarire da ogni ferita e frattura, una sensibilità “animale” e naturalmente il tratto più caratteristico: gli artigli ossei che gli spuntano da entrambe le mani. Il tutto ricoperto da una lega metallica chiamata adamantio e praticamente indistruttibile.
In che modo Logan sia riuscito ad ottenere la sua personale armatura di adamantio non ve lo sto a raccontare, ma potete immaginare da soli che non sia stato così facile e soprattutto indolore.
A corti discorsi potete fare quello che vi pare per uccidere Wolverine, ma se non avete qualche arma in adamantio non gli farete poi così male. Se viene ferito, si rigenera e l'unico piccolo problema che può avere avuto è stato un tizio che gli ha sparato in testa qualche proiettile. Di adamantio. Quindi Logan non si ricorda più nulla di nulla.

Qualche mese fa, durante le mie peregrinazioni internettiane, mi sono imbattuta in un articolo pubblicato su Cell da un gruppo di ricercatori della Harvard Medical School di Boston in cui si parla del gene Lin28a, da cui deriva una proteina responsabile della rigenerazione tissutale tramite alterazione del metabolismo. In pratica si tratta di una proteina regolatrice che almeno in parte agisce sul metabolismo del glucosio e promuove la ricostruzione di tessuti danneggiati. I modelli su cui questa proteina era stata finora studiata sono stati C. elegans (il nostro amico vermacchione) e lo zebrafish, tuttavia l'innovativo studio di cui sopra è stato compiuto su alcuni topi.
L'idea del gruppo di scienziati che si sono svegliati una mattina, si sono guardati allo specchio e si sono trovati terribilmente invecchiati, è la seguente: dato che il gene funziona molto di più durante gli anni giovanili del topo e poi perde la sua funzionalità, perché non manipolarlo un pochino e farlo tornare all'antica gloria nell'individuo adulto? In questo modo anche un individuo già sviluppato potrà ottenere di nuovo quelle capacità di rigenerazione tissutale ormai molto attenuate.
Tuttavia, i geni molto più spesso di quanto non si pensi lavorano in sinergia l'uno con l'altro, e dunque si è arrivati a concludere che esista la possibilità che ingegnerizzare solamente Lin28a possa non essere abbastanza o che comunque ci sia bisogno di identificare anche le molecole bersaglio di questo gene per avere un quadro più chiaro del meccanismo che giace al fondo. Di certo questo studio è un passo avanti per evidenziare gli effetti in vivo della manipolazione del gene e per poter approfondire nuove metodiche che aiuteranno nella cura di malattie che derivino da degenerazione e danneggiamento tissutale. Se volete documentarvi in modo approfondito su questo studio cliccate qui.
Il gene Lin28a è stato ribattezzato dalla stampa “Wolverine” per la lodevole associazione di idee di qualcuno che la sera precedente si era sparato il DVD sul divano e ne era rimasto piacevolmente colpito. Queste si chiamano coincidenze fortuite, ogni tanto capitano. 

Ora godetevi i Survivor che fanno 80 chilometri per raggiungere la sala prove, per strada fanno finta di non conoscersi, poi alla fine si bagnano i capelli a turno: una fortuna per il tastierista che aveva una pettinatura inguardabile. 


sabato 30 agosto 2014

Blu aragosta
Lobster, she wrote

La maggior parte di voi ricorderà l'aragosta Pizzicottina, cui Homer era molto affezionato, in una puntata dei sempreverdi Simpson. Ricorderete anche i suoi sentimenti contrastanti al momento di mangiarla.
Se anche voi andate pazzi per i crostacei, specialmente le aragoste, sarete forse incuriositi dal fatto che esistono anche le aragoste blu!
La cosa che vi stupirà ancora di più è che non sono nemmeno le più rare.
L'idea per questo post mi è venuta dopo aver letto, qualche giorno fa, della cattura di un'aragosta blu nella costa nord est degli Stati Uniti, il ben noto Maine della Signora Fletcher e di Stephen King.

Aragosta blu
Foto di Justin Brook

Un tempo, tra il diciassettesimo ed il diciottesimo secolo, di aragoste in zona ce n'erano così tante che venivano addirittura utilizzate come fertilizzante per i campi. Tuttavia, nel secolo successivo questi crostacei iniziarono a scarseggiare e divennero, ovviamente, molto costosi per chi voleva consumarli.

Contrariamente a quanto ci dicono i cartoni animati, l'aragosta (in questo post mi riferisco alla variante nordamericana, Homarus americanus) non è rossa come quando la vediamo nel piatto, bensì ha una sfumatura che va dal rosso scuro/blu profondo al verdastro, poiché in questo modo essa riesce a confondersi meglio con il fondale marino.

Homerus americanus

Passando un po' alle statistiche, la probabilità di trovare un'aragosta blu è una su 2 milioni di aragoste. Sono un po' pochine, vero?
Ebbene, non sono le più rare, dato che esistono anche quelle gialle e che se ne trova una su 30 milioni. Esistono, inoltre, anche aragoste con esattamente metà del corpo bruno e metà rosso (una su 50 milioni di aragoste).

Aragosta bicolore
(no, non è un Photoshop)

Da questo punto di vista, sembra quasi abbastanza comune trovare un'aragosta blu, rispetto a trovarne una gialla o bicolore.
Tuttavia ho lasciato la chicca per ultimo: esiste un tipo albino di aragosta e, udite udite, se ne trova un esemplare ogni 100 milioni.


Aragosta albina
Credits YourDailyMedia

Le aragoste albine sono le uniche che non cambiano colore dopo la bollitura, diventando color rosso brillante, come accade con gli altri esemplari.
Provare per credere, dopo essere riusciti a comprare un'aragosta albina, naturalmente.

A questo punto facciamo chiarezza su tutte le varie colorazioni e diciamo forte e chiaro che la pigmentazione dell' esoscheletro del crostaceo dipende da proteine prodotte dall'animale stesso.
In particolare, qualche anno fa uno studio del Dr. Harry Frank dell'Università del Connecticut è stato pubblicato nel Journal of Physical Chemistry. Nel testo si spiegava il motivo della colorazione blu, imputandola ad un difetto genetico proprio dell'individuo che la esprimeva.
Abbiamo già detto che normalmente l' esoscheletro dell'aragosta ha una colorazione che va dall'arancione scuro fino al blu scuro/verdastro, frutto della presenza di pigmento carotenoide (astaxantina), che dà il colore aranciato, e di crustacianina, un complesso proteico costituito da astaxantine riunite in “mazzetti” da altre proteine.
Secondo lo studio di Frank, la vicinanza delle proteine riunite in un “mazzetto” fa cambiare la configurazione degli elettroni negli atomi che le costituiscono e fa in modo che l'intero gruppo assorba una radiazione luminosa diversa da quella che verrebbe assorbita da una singola molecola di astaxantina.
In questo modo le molecole riunite in gruppi danno delle zone bluastre sull' esoscheletro dell'aragosta.
In un esemplare di aragosta blu la situazione appena descritta è spinta al massimo, dato che, per una mutazione genetica, il crostaceo produce una gran quantità di proteine che riuniscono l'astaxantina in crustacianina. Per questo motivo la colorazione blu si estende a tutto l'animale.
In questo caso la mutazione non è molto favorevole alla povera aragosta, la quale spicca moltissimo sul fondale marino rispetto alle sue compagne e viene più facilmente catturata.
A questo punto la domanda sorge spontanea: l'aragosta blu, quando si cucina, resta dello stesso colore?
Risposta negativa, il calore dell'acqua disfa la crustacianina, liberando le singole astaxantine, che donano la tipica colorazione rosso brillante all'aragosta bollita.
Enigma risolto, dunque. Ne sarebbe fiera anche Jessica Fletcher!

sabato 2 agosto 2014

Sole, Vento, Vino, Trallallà
I vigneti de La Geria, Lanzarote

Esiste una terra che in realtà è un canto lontano di mare e fuoco, che ricordano incessantemente come l'uomo, difronte alla Natura, sia davvero minuscolo.
Questa isola ha l'energia che possiedono tutte le isole vulcaniche e che non si riesce a descrivere bene se non se ne è mai visitata una. E' l'energia della terra stessa, il calore che emana da una manciata di sassi raccolti vicino alla bocca di un vulcano per il momento quieto, ma non spento per sempre.
La cenere, i lapilli, il vento, hanno modellato il paesaggio e delineato una vegetazione a tratti brulla e piuttosto africana.

Signore e signori, abbiamo un vincitore per quel che riguarda il quiz proposto nel penultimo post pubblicato, in cui si doveva provare ad indovinare il luogo dove era stata scattata questa foto.


Anzi, abbiamo una vincitrice!
Per il momento le risposte mi sono arrivate via messaggio, causa alcuni problemi con i commenti al post del blog, ma credetemi quando vi dico che questa signorina ha sbaragliato tutti a colpo sicuro ed al primo tentativo, vanificando il mio tentativo di depistaggio nella foto proposta!
Perciò, M.C., sai già di aver vinto, ora ritirerai anche il premio appena ti verrà in mente quale sia il tuo dubbio biologico da risolvere.

Dopo queste righe di suspense, svelo anche a voi che l'isola di cui stiamo parlando è Lanzarote, nell'arcipelago delle Canarie. In particolare, la foto è stata scattata nella zona de La Geria, conosciuta per le numerose coltivazioni di viti che producono una deliziosa Malvasia e per la presenza, conseguente, di molte bodegas (cantine).
A Giugno ho avuto la possibilità di visitarne una in particolare, la più antica delle Canarie e una delle più antiche di Spagna, la Bodega El Grifo, le cui prime notizie riguardo la fondazione risalgono al 1775.
Nel prezzo del biglietto d'ingresso sono comprese la visita alla cantina vera e propria, una passeggiata nel vigneto e una degustazione di vino. Con qualche euro in più si può assaggiare più di un vino e si ha diritto ad una piccola merenda a base di pane tostato e formaggio locale. Non dimentichiamo che la degustazione può essere fatta comodamente nel patio all'aperto sul retro della costruzione. Una sosta paradisiaca, se devo dare la mia opinione.

Ricorderete che nel precedente articolo sul vino abbiamo parlato della vite e dei fattori che portano alla sua evoluzione.
Quest'ultima, come ormai potete immaginare da soli, ha anche degli svantaggi. Infatti, se ci si “sposta” sempre più verso alcune tipologie di viti, la varietà nella pianta può diminuire. In molti paesi sono stati svolti degli studi per recuperare la tipicità e l'originalità delle varietà presenti e creare nuovi vini autoctoni, che altrimenti non vedrebbero la luce.

L' Universitat Rovira i Virgili di Tarragona, in Spagna, ne ha svolto uno in collaborazione con alcune cantine di Lanzarote, tra cui anche El Grifo.
Potete prendere visione di questo studio del 2013 qui; pur essendo in spagnolo, conoscendo le premesse e dando uno sguardo ai grafici in fondo, potrete avere un assaggio di quanta sia effettivamente la varietà nelle tipologie di vite presente sull'isola.
Scopo dei ricercatori è stato caratterizzare gli ecotipi della vite presenti a Lanzarote con la tecnica del DNA microsatellite, o STR (short tandem repeats).
Panico? Niente paura, andiamo a spiegare cosa sono queste STR.
Prima di tutto, diciamo che non tutto il nostro DNA codifica per le proteine, anzi la maggior parte  se ne sta lì bello tranquillo senza (apparentemente) fare nulla.
Le STR fanno parte di questo DNA non codificante e si trovano tra un gene e l'altro, in posizioni precise del cromosoma.
Le STR sono costituite da DNA ripetuto in piccoli blocchetti sempre uguali e sono molto utili quando si fanno dei confronti tra individui, siano essi piante, animali o uomini.

Vi state domandando perchè? Guardate la figura qua sotto.

Figura 1: STR corrispondenti

Figura 2: STR non corrispondenti
Grafiche di Pando
 
Consideriamo le ciliegine come se fossero delle sequenze ripetute (STR) non codificanti, mentre limoni e stelline identificano la parte codificante del cromosoma, quella che produce le proteine.
DNA 1 è un campione del genoma di una vite, DNA 2 un campione derivante dal genoma di una vite diversa.
In Figura 1 le due parti costituite da STR (in azzurrino) sono identiche, in Figura 2 sono diverse.

Lo studio dei microsatelliti serve ad ottenere la cosiddetta impronta genetica di un organismo. Individui diversi avranno una serie di ripetizioni diverse in determinate posizioni del cromosoma e allo stesso modo tracce dello stesso individuo saranno sovrapponibili perché in una precisa zona del cromosoma ci sarà lo stesso numero di ripetizioni.
Da questo lavoro, portato a termine usando la tecnica dei microsatelliti, è possibile intuire come nelle isole Canarie, specialmente in quella di Lanzarote, sia possibile riconoscere una gran varietà di tipologie di vite, che producono vini tipici di queste isole.
I ricercatori sono riusciti a:
  • raggruppare le viti in 27 gruppi in base al loro DNA;
  • vedere chiaramente fino a che punto alcune tipologie di piante siano imparentate con altre;
  • collegare alcuni ecotipi sconosciuti a tipologie di viti già note.
Senza allargarci a tutto l'arcipelago canario, che cosa rende davvero particolare il vino di Lanzarote?
E' bene ricordare che nel 1730 iniziarono sull'isola delle impressionanti eruzioni vulcaniche, che costrinsero gli abitanti a rifugiarsi sulla costa più orientale e che si protrassero per cinque anni. Di conseguenza la cenere vulcanica ricoprì completamente il terreno, lasciando scarse possibilità di coltivazione per quanto riguardava frutta e verdura.
Tuttavia, vuoi per spirito di intraprendenza, vuoi per la disperazione di vedere distrutta la propria terra, si hanno notizie di coltivazione della vite già da prima che cessassero le eruzioni.
Con il tempo proprio la cenere vulcanica si rivelò essere l'uovo di Colombo: proteggeva la pianta dalle problematiche derivanti dalle scarse piogge e dal disseccamento che avveniva a causa del forte vento che spazzava l'isola. Il lapillo (el picon) riusciva, infatti, ad attenuare l'eccessiva evaporazione e proprio con pietre di origine vulcanica venivano costruiti i muretti tuttora eretti a proteggere le viti nella zona de La Geria.
La vite è piantata in un foro fatto nel terreno, che la mantiene bassa e le garantisce la protezione del muretto. Quest'ultimo è incompleto: tra le pietre che lo costituiscono vengono lasciati dei fori che “rompono” il fronte ventoso, il quale, invece di abbattersi sulla pianta tutto in una volta, viene “spezzato” in più deboli correnti che disturbano in misura minore o addirittura per nulla la vite.
Il tipico muretto dell'isola è fatto a ferro di cavallo, sebbene nei vigneti più estesi si proceda alla costruzione di muretti quadrati per ottimizzare la quantità di viti che è possibile piantare.
Alle cantine El Grifo sia la raccolta che la cura del vigneto sono fatti manualmente, l'utilizzo del trattore è solo per le parti della vigna in cui esso riesce effettivamente a passare, le più centrali e ampie.
Vale la pena ricordare anche che i vigneti canari non sono stati mai intaccati dalla Fillossera, per cui non si è avuto bisogno di ricorrere agli innesti di cui parlavamo due settimane fa.
Fare di necessità virtù è qualcosa di più che un semplice motto per l'isola di Lanzarote, in cui il vulcano, il vento e l'ingegno dell'uomo si sono uniti per far sì che si potesse ottenere dalla terra un nettare degno di nota.
Esiste, dunque, un'isola a largo del Marocco, in cui mare, vento e fuoco la fanno da padroni. Tuttavia la sua è solo un'apparente aridità; essa ha nascosto tesori e ambrosia per chi ha saputo cercarli.
Ora fatevi un bel giro tra vigneti e cantine a Lanzarote. Buon fine settimana!




Ecotipo: varietà di piante diverse, la cui differenza risiede nell'interazione del materiale ereditario della pianta con l'ambiente in cui vive e con l'influenza dell'uomo.Torna su

mercoledì 2 luglio 2014

Tyger! Tyger! burning ... WHITE

Le tigri si esprimono attraverso una varietà di ruggiti, il più fragoroso dei quali è probabilmente il potente aaonh a cui maschi e femmine in calore ricorrono soprattutto durante la stagione degli accoppiamenti. È un richiamo udibile a grandi distanze e se lo ascoltate da vicino rimanete pietrificati. Poi c'è il woof delle tigri colte di sorpresa: un concentrato di furia secca e penetrante come lo scoppio di una bomba. Quando attaccano, i ruggiti sono gutturali e rauchi. Il brontolio rabbioso che usano a scopo di minaccia ha un timbro ancora diverso. Le tigri ringhiano e soffiano:
a seconda dello stato d'animo, questi versi ricordano il fruscio delle foglie d'autunno - solo più energico - oppure un'enorme porta dai cardini arrugginiti che si apre lentamente. In entrambi i casi l'effetto è agghiacciante. Le tigri gemono e grugniscono; fanno perfino le fusa, anche se più raramente dei gatti e soltanto espirando. (Solo i gatti fanno le fusa anche inspirando.) […]
Le tigri fanno persino miao, con un'inflessione simile a quella dei gatti, ma più sonora e dalla tonalità più profonda, che non invoglia certo a chinarsi e prenderle in braccio.
E le tigri possono anche stare in silenzio, un silenzio totale e maestoso.
Avevo sentito tutti questi versi durante la mia infanzia. Ma non il prusten.
Se ero al corrente della sua esistenza, era perché papà me ne aveva parlato. Ne aveva letto la descrizione nella letteratura zoologica. Ma l'aveva sentito solo una volta, durante una visita allo zoo di Mysore, nell'ospedale degli animali, da un giovane esemplare maschio con la polmonite.
Il prusten è il più pacato fra i versi della tigre, uno sbuffo dal naso che esprime cordialità e intenzioni pacifiche.
Richard Parker lo fece un'altra volta, accompagnandolo con un lieve movimento del capo. Chiunque, guardandolo, avrebbe giurato che mi stesse domandando qualcosa.

- Vita di Pi -

La Natura ci sorprende sempre, nemmeno una volta lascia insoddisfatta la nostra curiosità.
Io, ad esempio, non sapevo che la tigre facesse tutti questi versi e con questa varietà di significati. Mi ci è voluta la lettura del libro di Yann Martel per scoprirlo. Libro che è diventato ancora più noto per il pluripremiato film di Ang Lee da esso tratto.
La storia è quella di un ragazzino indiano, Piscine Molitor Patel, la cui famiglia possiede uno zoo. La devozione per gli animali fa in modo che in lui nasca una profonda ammirazione per tutte le creature ospitate nelle gabbie. La zoologia, insieme con le religioni, diventa la sua passione. Purtroppo gli affari non vanno bene per il padre, che decide di vendere gli animali e trasferirsi con la famiglia in Canada. La nave su cui viaggia la famiglia di Piscine, per gli amici Pi, sparisce durante una tempesta in mare aperto e lui sarà uno dei due unici superstiti.
L'altro è Richard Parker, un esemplare maschio di tigre del Bengala, con cui Pi dovrà condividere scialuppa ed avventure in mezzo all'Oceano Pacifico.
Non preoccupatevi, non vi ho svelato praticamente nulla del libro. La storia è molto più ricca di sfaccettature rispetto a quelle a cui accennavo poco sopra.
Su tutto emerge, maestosa, la figura della tigre, uno dei miei animali preferiti: fiera, nobile e terribilmente selvaggia.
Se leggiamo la tassonomia, si tratta di un gattone gigante, che arriva a misurare quasi 4 metri per poco meno di 400 kg di peso. Il suo nome scientifico è Panthera tigris e condivide lo stesso genere con il leone, il leopardo ed il giaguaro. La tigre adulta è un animale ai vertici della catena alimentare nel suo ambiente naturale, un cosiddetto predatore alfa, che si ciba soprattutto di ungulati simili a cervi e bovini.
Un tempo esse erano diffuse in tutta l'Asia, dalla Turchia alla parte più ad Est della Russia, ma al giorno d'oggi il loro habitat è molto meno esteso, oltre ad essere frammentato ed in generale distrutto. Se ci aggiungiamo anche il bracconaggio non è difficile concludere che la tigre è un esemplare in pericolo di estinzione: all'inizio del ventesimo secolo se ne contavano circa 100.000 esemplari, al giorno d'oggi ce ne sono meno di 4000 che vivono nel loro habitat naturale.

La tigre è un animale solitario e sociale. 

Wow, come può essere? In generale ogni esemplare ha un proprio territorio, che a volte si sovrappone con quello di altre tigri, ma di solito succede solo ai maschi, che lo fanno per avere a disposizione più femmine nel periodo dell'accoppiamento. Quando si tratta di dividere una preda, tuttavia, non è inusuale che a cibarsene non sia solo chi l'ha uccisa, ma anche qualche femmina con i cuccioli.
La tigre ama, inoltre, fare il bagno: come darle torto, specialmente in questo periodo? Strano per essere un gatto, è vero.

Esistono sei specie di tigri tuttora viventi. Forse una delle più conosciute è la tigre del Bengala, che esiste anche nella variante bianca e nera. Infatti tutti noi siamo abituati a pensare ad un bel tigrottone arancione a strisce nere, ma in quanti hanno visto per caso una foto di una tigre bianca e nera ed hanno esclamato: “Caspita, anche le tigri possono essere albine!”.

Amici, non fatevi cogliere in fallo dal compare più saputello: la tigre bianca NON è una tigre albina, ma una tigre con una mutazione a carico di un particolare gene.


Una coppia di tigri bianche allo zoo di Haifa
Foto di Zvi Roger - Haifa Municipality

Procediamo con ordine, la melanina sappiamo che è un pigmento che dà colore alla pelle ed ai capelli o più in generale ai peli del nostro corpo e del corpo degli animali. Ne esistono due varianti: la feomelanina produce colorazioni che vanno dal giallo al rossiccio, l'eumelanina dà colorazioni che vanno dal marrone al nero. Le tigri bianche non producono feomelanina, ma continuano a poter produrre eumelanina, per questo hanno un manto bianco a strisce nere.
Una tigre albina, invece, non potrebbe produrre nessun tipo di melanina e quindi sarebbe completamente bianca.

Uno studio cinese del 2013, che come sempre potete leggere per intero utilizzando i riferimenti a fondo pagina, si è concentrato sulle motivazioni della particolare colorazione della tigre e ne ha tratto alcune interessanti conclusioni.
Ci si è concentrati sui geni che erano i principali candidati per la colorazione del manto della tigre e si è visto che in particolare il gene SLC45A2 potrebbe essere la causa di tutto.
Questo gene codifica una proteina chiamata con il difficile nome di trasportatore proteico associato alla membrana, che nello specifico altro non è che una delle tante tipologie di porte girevoli che possediamo nella membrana di ognuna delle nostre cellule.
E' semplice: la cellula per sopravvivere deve rimanere un sistema controllato, quindi per far entrare ed uscire sostanze varie da essa è necessario utilizzare degli stratagemmi; uno di questi è il trasportatore di membrana, che assomiglia a quelle cabine che spesso sono all'ingresso delle banche, in cui entri, ti si chiude la porta dietro e poi ti si riapre davanti per lasciarti entrare nella banca vera e propria. In più, i trasportatori di membrana, all'interno, hanno l'esatta conformazione della molecola che devono trasportare.
Per fortuna quest'ultima cosa ce la risparmiano ancora nelle banche, sebbene spesso ci si chieda anche cos'altro dovrai lasciare nella cassettina all'ingresso, visto che la cabina continua a suonare e a non volerti far entrare.
Ecco, comunque, spiegata in parole povere la funzione delle proteine trasportatrici di membrana.
In particolare SLC45A2 si occupa della produzione della melanina e sembra che il cambiamento in un singolo mattoncino di tutta la proteina, sia responsabile per la mancata sintesi di feomelanina e dunque per l'esistenza di tigri bianche e nere. Volete sapere come? Facile, cambia la forma della “cabina” interna al trasportatore, quindi la molecola che prima veniva fatta entrare o uscire senza problemi, ora non ci entra più. Di conseguenza non si hanno più mattoni per produrre feomelanina.
La totalità delle tigri bianche oggi viventi sono state fatte nascere in cattività, grazie ad incroci controllati all'interno degli zoo. La variante bianca in natura è stata avvistata ed uccisa per l'ultima volta nel 1958, tuttavia non è detto che non ne esistano altre, data la rarità della mutazione.
Lo studio citato ha proprio voluto dimostrare che la mutazione a carico del gene SLC45A2 è naturale e non si produce solo in cattività.
Al contrario, gli individui fatti nascere da incroci controllati spesso vengono al mondo già morti o presentano deformità ed in generale non raggiungono l'età adulta. Le problematiche a carico dei cuccioli, infatti, derivano da fenomeni di inbreeding, incrocio tra individui troppo “vicini” geneticamente, mentre non ci sono in natura, dove le tigri bianche raggiungono tranquillamente la maturità.
Bene, ora che avete fatto una bella scorpacciata di genetica, distendete i neuroni con il post seguente ... questa settimana vi viziamo proprio!



giovedì 22 maggio 2014

Vivi, morti o X (men)

Ormai in molti conoscono gli X-Men, volenti o nolenti.
In più, ci si divide sostanzialmente in tre gruppi: quelli che sanno tutto sia dei film che dei fumetti da cui sono stati tratti, quelli che vedono dieci secondi di trailer e cambiano canale, quelli che guardano i film, li trovano belli, ma fermati lì.
Poi ci sono quelle che ti dicono “Io degli X-Men conosco Wolverine”, chissà perché.
Personalmente non sono una fan dei fumetti, anche se, grazie ai film ed alla passione di alcune persone a me molto vicine, sono rimasta piacevolmente colpita da quel che giace al fondo di questa saga. Siccome in molti si stanno preparando ad invadere i cinema per l'arrivo, proprio oggi, del nuovo capitolo della serie, mi sembrava opportuno scrivere qualcosina, anche per le sventurate (di solito sono le fidanzate, in questo caso) che saranno trascinate senza pietà a godersi ore di combattimenti, lettura nel pensiero ed uno strano caschetto.
Per fortuna che c'è Wolverine, sul quale ci dilungheremo in un post successivo.
Innanzitutto gli X-Men si chiamano così perché tutti quanti possiedono il Gene X, una mutazione a carico del loro genoma che conferisce loro caratteristiche straordinarie. Solo per fare un esempio: capacità di telepatia o telecinesi, possibilità di manipolare gli elementi atmosferici o i campi magnetici, resistenza fisica portata all'impossibile, capacità di mutarsi completamente in qualsiasi altra persona.
La caratteristica che mi porta ad apprezzare particolarmente questo gruppo di personaggi è che, a differenza di una miriade di altri loro colleghi, i loro poteri non sono derivati da un incidente straordinario, come è avvenuto per Spiderman o per Hulk, ma da un avvenimento naturale, sebbene ovviamente portato nel campo della fantascienza.

Il primo albo di fumetti sugli X-Men fu pubblicato nel 1963 da Marvel Comics. In esso i mutanti erano solo un piccolo gruppo di adolescenti, non accettati dal mondo ed in preda a cambiamenti profondi di psiche e corpo. Problemi comunque più pressanti nel loro caso rispetto alla normale acne o ad altezze sproporzionate di ragazzini sottilissimi dal discutibile odore. Quando non sei né carne né pesce, insomma, anche se per gli X-Men c'era qualche problemino in più.
La tematica del fumetto scava, tuttavia, ancor più nel profondo. Al centro ci sono la diversità del mutante, essere mostruoso ed incompreso in un mondo di umani e perciò considerato pericoloso. Il vero problema, tuttavia, è che di mutanti non ce ne sono proprio pochissimi nel mondo, quindi gli umani “normali” tentano di arginare il fenomeno con sperimentazioni su sieri che possono far “guarire” dal Gene X o semplicemente mettendo in atto la volontà di registrare i mutanti.
Un primo passo verso la discriminazione e l'odio razziale, insomma.
In tutto ciò gli stessi X-Men si dividono in due fazioni; da un lato Charles Xavier, potente telepate, fiducioso in un utopico mondo in cui mutanti ed umani coesistono, dall'altro Magneto, in grado di manipolare metallo e campi magnetici a suo piacimento, ostile agli umani e sostenitore della superiorità dei mutanti.
Una storia affascinante e ricca di sfaccettature, probabilmente per questo motivo il rilancio sul grande schermo ha rivalutato anche le sorti del fumetto.

La mutazione è da sempre stata la base dell'evoluzione poiché determina la variabilità genetica che possiamo individuare con un unico sguardo alle persone intorno a noi.
Di che cosa si tratta? Si definisce come un cambiamento permanente ed ereditabile del patrimonio genetico e può avvenire in qualsiasi organismo. Si tratta di un processo lento e casuale, che può risultare in un cambiamento positivo, negativo o indifferente per l'individuo mutato.
Un esempio che mi è sempre sembrato molto esplicativo è il caso della Biston betularia, una falena che si mimetizzava su tronchi di albero ricoperti da licheni di colore chiaro, dato che anch'essa aveva ali chiare che le permettevano di passare inosservata ai predatori.

Biston betularia morpha typica
Foto di Olaf Leillingen

Con l'avvento della rivoluzione industriale in Inghilterra, molti di questi licheni scomparvero ed il tronco degli alberi annerì per l'inquinamento ed i fumi industriali. Le falene che, per una mutazione, nascevano con le ali scure avevano un vantaggio notevole nei confronti di quelle con le ali chiare e sicuramente venivano predate in misura molto minore. 

Biston betularia betularia morpha carbonaria
Foto di Olaf Leillingen

Dopo un certo periodo di tempo la popolazione dalle ali scure soppiantò completamente quella delle sorelle con ali biancastre. Il fenomeno fu chiamato “melanismo industriale” e fu spiegato come una mutazione spontanea del gene responsabile del colore delle ali accompagnato da una selezione naturale sfavorevole per le falene che in un primo tempo erano il gruppo predominante, quelle dalle ali chiare.
Le mutazioni possono essere spontanee o indotte da agenti esterni, come sostanze chimiche, ad esempio; senza scomodare i rifiuti tossici, basti pensare alle sostanze contenute nello scarico dei motori, nelle sigarette o nella parte carbonizzata dei cibi. Anche i raggi ultravioletti sono mutageni
La mutazione può interessare una piccolissima parte del genoma, un intero gene o una zona ancora più grande del nostro corredo genetico.
Se per l'organismo esiste la capacità di mutare, esiste anche l'opposto, cioè un meccanismo di riparazione del genoma mutato. E' come una bilancia: se il tasso di riparazione è alto, quello di mutazione è ridotto e viceversa. I vari meccanismi di riparazione, tuttavia, differiscono da più semplici a più complessi, anche se non sempre quelli più complessi corrispondono ad un maggior livello evolutivo. Gli umani, ad esempio, hanno in comune alcuni di questi meccanismi con le mosche.
Avremo modo di approfondire alcuni interessanti casi di mutazione in altri post, nel frattempo vi lascio con una battuta del film X-Men, che riporta nel mondo della finzione le basi scientifiche di cui abbiamo parlato oggi insieme.

La mutazione è la chiave della nostra evoluzione, ci ha consentito di evolverci da organismi monocellulari a specie dominante sul pianeta. Questo processo è lento e normalmente richiede migliaia e migliaia di anni, ma ogni centinaio di millenni l'evoluzione fa un balzo in avanti.

- Charles Xavier - 





venerdì 25 aprile 2014

Gli abiti nuovi del Granturco

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Se non avreste mai creduto di poter vedere in vita vostra una pannocchia di mais di un colore diverso dal giallo, dovrete cambiare idea dopo aver letto questo post.
Che ci crediate o no, esiste una varietà di mais colorato. O meglio, esiste da un po' di tempo, grazie alla pazienza e ad un certo grado di dimestichezza con la coltivazione delle piante di granoturco di Carl Barnes, agricoltore statunitense.
Il signor Barnes, per metà di origine Cherokee, tuttora vivente in Oklahoma, ha voluto cercare il legame con le sue origini piantando antiche varietà di mais che erano cadute nell'oblio, soppiantate da tipologie più resistenti a freddo ed intemperie.
Man mano che il suo mais cresceva ha voluto immaginare che ci fosse la possibilità di crearne una varietà con chicchi di colore diverso l'uno dall'altro, tutti nella stessa tonalità oppure belle pannocchie color arcobaleno.
Non storcete il naso, non sto parlando dei tanto temuti OGM, di cui di frequente si parla molto e a sproposito, ma di un uomo che ha dedicato gran parte della sua esistenza a individuare piante che avessero particolari colori della pannocchia. In seguito le ha selezionate e quindi ripiantate, osservando cosa accadeva nella generazione successiva.
Per completezza, è bene ricordare che il colore della pannocchia di mais non è influenzato dall'ambiente esterno, come invece accade per altre caratteristiche della pianta, come ad esempio l'altezza. Quindi la pannocchia multicolore deriva solo da incroci effettuati da mano umana.
Non si sa con precisione per quanti anni Barnes abbia lavorato a quello che viene chiamato Glass Gem Corn o Mais Gemma di vetro, scegliendo le piante che producevano chicchi dai colori vividi, ma il risultato è visivamente straordinario.
Gran parte della diversità del mais che esisteva in passato si è ormai estinta, probabilmente a causa della diffusione della monocoltivazione e delle piante che danno una resa migliore e possiedono maggiore resistenza. Ciò ha inevitabilmente causato una restrizione della biodiversità vegetale e, per tutte le piante che facevano fatica ad essere produttive e resistenti, il pericolo di scomparsa.
Nelle foto potete vedere solo alcune delle varietà di colore delle pannocchie di mais, normalmente commestibili e che danno la possibilità di piantare i semi per ottenere una nuova generazione.


Glass Gem Corn - via Seeds Trust Facebook page


La domanda è lecita: ma a che cosa serve una pannocchia multicolore, se quelle gialle sono già commestibili?
La mia personale opinione è che in un mondo in costante omologazione, fatto che ha i suoi pro ed i suoi contro indubbiamente, un po' di diversità in più non fa mai male.
La pannocchia colorata onora il lavoro di un uomo con una forte passione ed una costanza nella ricerca e nella selezione che sarebbe bene tenere a mente.
Stagione dopo stagione il suo mais è cresciuto, lo ha sfamato e gli ha permesso di esternare in qualche modo la sua creatività.
Naturalmente Carl Barnes è stato solo il primo di una schiera di agricoltori, di professione e non, che hanno iniziato a piantare i semi del suo mais. I preziosi chicchi furono donati infatti alla Seeds Trust, una piccola azienda dell'Arizona a conduzione familiare, che si incaricò di preservare questa varietà di mais. Più tardi l'azienda si è evoluta nella NATIVE Seeds/Search, un'organizzazione no profit che si occupa della conservazione di semi di particolari specie vegetali (www.nativeseeds.org).
C'è un vero e proprio negozio online da cui si possono ordinare semi di diverse piante, tra cui ovviamente il famoso Glass Gem Corn, un tipo di mais che non si mangia direttamente dalla pannocchia, ma è ottimo per ricavarne farina e popcorn.
Non potrete tuttavia mostrare agli amici convenuti nella vostra casa il pop corn colorato; mi dispiace informarvi che è bianco!

Nel 1983 Barbara McClintock ottenne il premio Nobel per i suoi studi e le sue scoperte riguardanti gli elementi trasponibili del genoma del mais.
I trasposoni sono delle parti di DNA che saltellano qua e là nel genoma (succede anche in quello umano) e provocano ripercussioni sull'espressione genica: un gene può smettere di produrre proteine o risultare inalterato dall'inserzione di un elemento trasponibile nella sua sequenza.
Il fatto più eclatante ed anche quello che permise alla McClintock di ottenere l'ambito premio fu quello di sfatare il mito di un genoma immobile.
Senza approfondire troppo il concetto, esistono due tipologie di trasposoni: quelli che riescono a muoversi nel genoma da soli e quelli che non ci riescono.
Un po' come quando ti raccontano la storia che nella vita esistono due gruppi di persone: quelle che stanno alla guida e quelle sedute sul sedile del passeggero. I primi riescono ad andare dove vogliono e gli altri invece devono per forza farsi portare.
A differenza dei meccanismi di ricombinazione genica, che sono mirati ad una determinata posizione sui geni, la trasposizione è casuale e può avvenire in ciascuno dei 10 cromosomi del mais.
Un chicco di mais è composto da tre strati: l'endosperma, la parte più interna, il pericarpo e l'aleurone, la parte più esterna.
La colorazione dei chicchi è regolata dalla sovrapposizione di questi tre strati. Essi possono assumere diverse sfumature a seconda dei geni che si esprimono o addirittura nessuna colorazione, come nel caso dell'endosperma, se il trasposone interrompe il gene che di solito fa produrre la proteina responsabile del colore giallo.
Parlando con una mia amica di questo argomento, lei mi ha fatto una domanda che al principio mi ha spiazzata, poi mi ha spinta a fare ulteriori ricerche.
Ve la scrivo.
Molti dei colori che vediamo in queste pannocchie sono secondari, formati cioè per sovrapposizione dei diversi strati del chicco, cosa che torna anche a me che di disegno e pittura ci capisco poco o niente.
Il giallo e il rosso, colori primari, risultano normali anche nell'esperienza comune, visto che di pannocchie gialle ne avrete viste a bizzeffe e quelle rosse sono dovute ad un endosperma bianco a cui si sovrappongono strati rossastri, ricchi di antocianine e flobafeni, presenti nei due strati più superficiali del chicco.
Ma il blu, come ve lo spiegate? E' un colore primario, quindi il gioco delle sovrapposizioni non funziona più, tuttavia gli strati più esterni sono rossastri di solito, perciò come si fa ad ottenere una tinta del genere?
Esiste il mais blu, gentili lettori, ed è semplicemente un mais normale con un' altissima concentrazione di antocianine negli strati più superficiali del chicco, che da rossastri arrivano ad una colorazione che vira al blu.
Si tratta di una di quelle antiche varietà di mais di cui parlavamo all'inizio di questo post, coltivata un tempo dalle tribù native americane degli Hopi e ancora oggi in alcuni stati come l'Arizona ed il New Mexico, oltre che in Messico.
Per dire, negli Stati Uniti si trovano anche le patatine di mais blu.
Quindi anche per i chicchi blu si può parlare di sovrapposizione di strati ricchissimi di antocianine su un endosperma base bianco.

Per ulteriori approfondimenti consiglio questo post che per me è stato molto chiarificatore: Jumping genes make fall come alive dal blog di Kirk Maxey.

Oltre a questo, vorrei personalmente ringraziare il curatore di quest'ultimo blog per la sua gentile disponibilità e dedicare a lui questo piccolo scritto.