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giovedì 10 luglio 2014

SOS degustazione

Guida semplice per non intenditori

Quando si pronuncia la parola VINO si sa già che ci si troverà difronte a due tipologie di persone:

- l'intenditore, colui che semplicemente SA. Anche se non gli hai chiesto nulla ti darà dei consigli e ti racconterà la storia di quella bevanda a lui così familiare. Non sempre è detto che abbia studiato l'argomento, anzi i più noiosi sono proprio quelli che non lo hanno fatto. Per loro Socrate (o Platone, se siete dubbiosi) si sbagliava quando diceva: “So di non sapere”. Loro SANNO. Punto.

- il godereccio, colui a cui basta che sulla bottiglia (o sulla scatola, per quel che gli importa) ci sia scritta la fatidica parola per tendere il bicchiere.

Non so esprimermi su quale delle due categorie io trovi più fastidiosa, tuttavia sento di affermare senza dubbio che io faccio parte di una terza categoria, quella degli sperduti.
Provo una certa venerazione per il vino e per il processo che lo fa diventare quel che è, perchè rappresenta davvero un delicato equilibrio tra Natura e uomo. Allo stesso tempo, quando mi sembra di aver intaccato la superficie dell'argomento, nuove nozioni mi ributtano indietro al punto di partenza.
E' un po' come vedere la riva dal largo e non riuscire a raggiungerla, pur nuotando “con stile perfetto” [cit. Pensavo fosse amore e invece era un calesse].
Per questo motivo cerco sempre di attingere alle conoscenze del gruppo degli intenditori, per poi verificarle a casa e, nel caso siano giuste, ricordarle.

Per sopravvivere alle degustazioni, che siano organizzate oppure a casa dell'ennesimo collega o amico, bisogna ricordare delle cose fondamentali, come ad esempio che il vino si fa con l'uva.
Lo so, lo so che lo sapete già, ma forse troppo spesso dimentichiamo che il vino non è solo succo d'uva. Molte persone pensano che basti schiacciare l'uva ed aspettare perchè si verifichi una magia che lo trasforma in vino, una specie di riedizione delle nozze di Cana, ma senz'acqua.
Il succo d'uva a questo punto fermenta, così, senza una ragione, solo perchè qualunque frutto schiacciato produce il proprio succo, ma più alcolico. Se così fosse, anche schiacciando una fragola e lasciandola un po' lì a decantare, avremmo in tempi più o meno brevi un buon succo di fragola alcolico, a seconda del processo di fragolificazione. Che cosa cambia?
Sulla superficie dell'acino d'uva c'è una sostanza di natura cerosa, chiamata pruina, che crea una patina bianca che si rimuove al solo passaggio di un dito sulla buccia. La pruina viene prodotta dalle cellule superficiali dell'acino e lo protegge da eccessiva disidratazione e dai raggi ultravioletti. Inoltre, questa sostanza trattiene sulla superficie dell'acino alcuni lieviti che danno il via alla fermentazione. E' il lievito il primo responsabile della vinificazione!

Il lievito può sopravvivere con vari mezzi. Alcuni tipi respirano ossigeno, proprio come voi e me, mentre altri, in assenza di ossigeno, possono utilizzare la fermentazione, degradando zuccheri per ottenere energia, anidride carbonica ed etanolo, responsabile della gradazione alcolica.
Et voilà, ecco cosa accade nella tinozza in cui abbiamo pigiato l'uva: un microrganismo, in assenza di ossigeno ed in presenza di zuccheri presenti nel chicco d'uva, ricava energia in un modo diverso dalla respirazione aerobica e produce sostanze che cambiano il substrato, in questo caso il mosto, in vino.
Naturalmente, quella di cui abbiamo parlato finora è una versione molto semplificata del processo di vinificazione. E' possibile che, oltre ai lieviti “indigeni” dell'acino spremuto, debbano essere aggiunti altri lieviti, a volte anche per dare un particolare aroma alla bevanda finale.
Un buon bicchiere di vino al giorno è consigliato nella propria dieta, proprio perchè così si integra la propria alimentazione con i polifenoli, antiossidanti naturali. Il vino è stato oggetto di numerosi studi scientifici e per citarli tutti impazzirei, ma sembra realistico il fatto che l'ingestione di molecole antiossidanti con un bicchiere a pasto migliorerebbe la salute e molti dei parametri controllati con le analisi del sangue.
Tuttavia, dove si trovano queste sostanze ed esattamente in che momento della vinificazione i polifenoli passano nel vino?
Tutti sappiamo che l'uva per diventare vino deve essere spremuta in qualche modo, che sia con una macchina o con i piedi dei contadini non importa, comunque sia da questo processo nasce il cosiddetto mosto, che poi può essere allungato con dell'acqua a seconda delle preparazioni cui andrà incontro. Il mosto inizierà gradualmente a fermentare e, come abbiamo appena detto, potrà farlo già spontaneamente o potrà essere aiutato dall' aggiunta di ulteriori lieviti.
Esistono fondamentalmente due principali tipi di vinificazione, quella in rosso e quella in bianco, per ottenere le due differenti tipologie di vino.

Nel primo caso il mosto viene lasciato a contatto con le vinacce, cioè le bucce ed i piccioli dell'uva, e nelle prime fasi della fermentazione avviene il processo di macerazione: le sostanze antiossidanti contenute nella parte più esterna dell'acino e nei vasi più superficiali che si trovano a contatto con la buccia si trasferiscono al mosto in relazione alla temperatura e alla durata del contatto di quest'ultimo con le bucce stesse. Quindi, a seconda di quanto a lungo restano in contatto, avremo vini rosé e rossi in varie sfumature.
Nel caso della vinificazione in bianco, invece, le vinacce vengono separate e non avviene la macerazione. Questo vuol dire che il vino bianco non ha polifenoli? No, semplicemente ne ha molti meno rispetto a quello rosso perchè non viene lasciato a decantare con le bucce, ma una parte dei polifenoli utili viene comunque trasferita al mosto nel momento della spremitura delle uve.



Questa è una breve guida molto semplificata, che può servire comunque per cavarsela egregiamente in caso di degustazione. Inoltre ci servirà come introduzione per alcuni post successivi in cui potrò descrivervi la mia esperienza alle degustazioni di vino ed una piccola gita che ho effettuato nei miei 20 giorni sabbatici di assenza dal blog.
Vorrei celebrare, inoltre, il principio di collaborazione donando un'immaginaria medaglia al Dr Bonavia, prezioso chimico per i momenti di confusione scientifica, per avermi permesso di districarmi nel mondo dei polifenoli e per avermi evitato di scrivere castronerie o semplici imprecisioni. La competenza è fatta di dettagli, dal mio punto di vista.
Ora vi lascio con questo delizioso cartone animato, so già che vi piacerà! In questo caso, faccio l'intenditrice e non la sperduta.



giovedì 27 marzo 2014

Forza e coraggio lo scarafaggio!

La prima volta che vidi uno scarafaggio in vita mia fu a scuola. Non era morto e conservato sotto formalina per scopi didattici, ma si aggirava leggiadro tra gli zaini ed i pioli dei banchi nell'aula semivuota in un mattino invernale. Stranamente non fu un sentimento di schifo quello che mi sorprese, ma di curiosità. In molti parlavano di questi animaletti orridi con tantissime zampette, anche Teo Robinson aveva un amico che si chiamava Scarafaggio ne “I Robinson” e vederlo dal vivo era un evento dal mio punto di vista. E' naturale che mi feci qualche domanda, dato che il nostro primo incontro fu in un edificio scolastico piuttosto che in una discarica, tuttavia con il senno di poi ho chiare molte più cose.
Ad esempio, durante il mio primo trasloco, nella penombra del salotto vidi uno scarafaggio attraversare il parquet scuro e nascondersi sotto un mucchio di giornali. Alle mie urla e vibrazioni, rispose tornando indietro verso gli scatoloni del trasloco. Finì male per lui, ma di sicuro non per merito mio, dato che l'idea di schiacciare un insettone di quelle dimensioni mi dava il voltastomaco. In seguito una mattina, scendendo dal letto, ne trovai uno agonizzante vicino alle mie ciabatte (nel frattempo avevo piazzato delle trappole). Di nuovo seguì il momento di caccia, con una me stessa urlante sul letto.
La mia casa è sporca? Non direi, date le mie innate manie igieniche. E' stata costruita di recente? No, forse c'entra qualcosa. Finirò come il vecchietto cattivo di Creepshow (evito il link perchè è abbastanza disgustoso)? Non lo so, ma comunque da parecchio tempo ho abbracciato l'idea di conoscere meglio il mio “nemico” e tentare in questo modo di capire quale sia la battaglia personale che sta combattendo, al fine di comprendere meglio la sua posizione. Inutile dirlo, tendo ad antropomorfizzare qualsiasi cosa, ormai lo avrete capito.
Ho introdotto l'argomento scarafaggi perché qualche tempo fa ho letto un trafiletto interessante su un settimanale. Aveva per argomento gli scarafaggi di New York e vi era scritto che quasi in ogni quartiere della Grande Mela esiste un particolare gruppo di questi insetti, arrivato da tempo immemore e lì ormai diventato stanziale. Con lui, ovviamente, anche il suo DNA si trova in quel preciso quartiere e, attraverso un ambizioso progetto di DNA Barcoding, la Rockefeller University sta cercando di “etichettare” i vari gruppi, cioè di dividere i vari tipi di scarafaggi in abitanti dell' Upper East Side, Brooklin, East Side e così via, a scopo tassonomico.
Il DNA Barcoding (barcode significa codice a barre in inglese) è un metodo di classificazione degli organismi eucarioti basato sul riconoscimento di un breve marcatore genetico, una sequenza di DNA di poche basi, per identificare un organismo appartenente ad una specie definita. A differenza di altri metodi, il DNA barcoding non è usato per cercare relazioni tra organismi, ma per collocare un campione ignoto all'interno di una classificazione già esistente. Rimane comunque ovvio che, nel caso l'organismo ignoto non possa essere inscritto in nessun gruppo già esistente, si potrà parlare di una nuova specie.
Per quanto riguarda gli animali si è scelto di prendere come barcode una parte del gene che codifica per la citocromo ossidasi mitocondriale. Prima e più importante caratteristica, il DNA prescelto per svolgere questo ruolo deve avere una grande variabilità tra le specie ed una scarsa variabilità all'interno della specie.
Sebbene il metodo non sia stato accolto da tutta la comunità scientifica con lo stesso entusiasmo e siano stati avanzati numerosi dubbi sulla sua efficacia, esistono diversi progetti scientifici fondati proprio sul DNA Barcoding.
Secondo i dati della Rockefeller Univesity, nell' Upper East Side sembra prevalere il German Cockroach, arrivato lì con le prime ondate migratorie europee, mentre fuori Manhattan è diffuso l'American Cockroach, probabilmente giunto dall'Africa con altre migrazioni, quelle degli schiavi.
Visitando il sito apposito (National Cockroach Project) ogni cittadino di New York può contribuire all'invio di campioni (morti, come c'è scritto espressamente; chissà, magari c'era gente che li mandava vivi nella busta chiusa). Che cosa si ottiene in cambio? Tra le altre cose, come espressamente citato nella home page: a cool topic to talk about with friends, un argomento figo di cui parlare con gli amici.
Già, magari davanti ad una pizza.
Anche se io non ricordo molte persone entusiaste quando, durante una cena, mi metto a spiegare le terribili cose che possono nascondersi nella carne cruda; figuriamoci con gli insetti cosa succederebbe.
Quali sono gli interrogativi che giacciono al fondo di questo progetto? Studiare l'evoluzione ed i pattern migratori degli scarafaggi attraverso il loro DNA, scoprirne magari nuove specie e, perché no, sensibilizzare la popolazione.
A dispetto di quello che si può pensare, solo 4 o 5 specie di scarafaggio sono effettivamente dannose per l'uomo perché contaminano le derrate alimentari stoccate nei magazzini. In realtà l'insetto è solo un mezzo attraverso il quale l'uomo può subire una contaminazione indiretta, dato che esso frequenta spesso posti abbastanza discutibili, come gli scarichi fognari ed i cassonetti, e poi entra in casa con il suo vestitino di batteri, virus, epatite A e così via.
Di per sé, tuttavia, gli scarafaggi sono origine di fenomeni allergici, come l'asma, nella specie umana.
Molti entomologi sono impressionati dalla capacità evolutiva del genoma degli scarafaggi. Da sempre si sa che sono difficili da eradicare una volta che si sono installati in casa, tuttavia stanno emergendo nuovi individui capaci di evitare le trappole fondate su miscele contenenti glucosio come esca.
Dopo più di dieci anni dall'uscita del film, ho finalmente capito questa scena di "Men In Black" in cui un gigantesco alieno – scarafaggio si impossessa del corpo di un contadino ed entrando in casa chiede alla moglie un bicchiere di acqua con tantissimo zucchero.




Per concludere, il titolo di questo post ricorda una frase di incoraggiamento coniata da un mio compagno di classe, il quale amava ripeterla come posseduto da una forza soprannaturale all'interrogato di turno. Nessuno pensava che un fondo di verità ci fosse davvero, dato che nel corso degli anni lo scarafaggio è stato preso come esempio di resilienza in campo entomologico (nda: dal latino resiliens -entis, part. pres. di resilire, "rimbalzare" - in ecologia e biologia è la capacità di un materiale di autoripararsi dopo un danno o di una comunità (o sistema ecologico) di ritornare al suo stato iniziale dopo essere stata sottoposta ad una perturbazione che l'ha allontanata da quello stato. In psicologia, la resilienza viene vista come la capacità dell'uomo di affrontare le avversità della vita, di superarle e di uscirne rinforzato e addirittura trasformato positivamente1)
Lo scarafaggio, capace di resistere senza cibo per tre mesi e senza acqua per un mese, resistente al freddo in alcuni casi e certe volte quasi immortale dopo essere stato schiacciato, è stato citato persino da Madonna in una sua dichiarazione:
“I am a survivor. I am like a cockroach, you just can't get rid of me” - “Sono una che sopravvive. Sono come uno scarafaggio. Semplicemente, non ci si può liberare di me”.