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venerdì 5 settembre 2014

Labirinto di mais e di ipotesi

Questa settimana torniamo a parlare di mais, dopo il post sull'installazione (!!) Quantomais a Milano.
Rifiuto Biologico ha scoperto che nelle Marche, paese di avidi mangiatori di ciauscolo e olive e bevitori di ottimo vino, è stato "costruito" un labirinto di mais che fa concorrenza allo stretto corridoio difronte al Castello Sforzesco.
A Senigallia, non lontano dal casello e dal centro città, alcuni baldi giovani riuniti nella società cooperativa Hort hanno costruito un grande labirinto, fatto appunto di mais.
Cosa si va a fare in un labirinto di mais? Si gioca a tornare bambini e si fanno divertire quelli che bambini ancora lo sono, facendo incontrare loro Alice e la Regina di Cuori, ad esempio. Tanto di cappello a chi si è inventato l'idea della caccia al tesoro settimanale nel labirinto e la notte del Minotauro, gli eventi sotto le stelle e la notte di paura che ci sarà proprio questo sabato sera.
Onore al merito anche perchè questa non è stata di sicuro un'estate facile da gestire, con ripetuti periodi di pioggia che hanno costretto gli operatori a chiudere il labirinto perché impraticabile causa fango. Oltre a ciò, siccome alle Marche non manca mai qualche sconvolgimento naturale, proprio mentre il mais stava crescendo Senigallia è stata colpita dall'alluvione, che ha creato difficoltà al grande progetto.
Se volete perdervi un po' avete tempo fino al 14 settembre per approfittare dell'occasione (orario di apertura 17/23). Intanto guardate questo divertente video fatto durante la costruzione del labirinto.



Il mais fu l'unico cereale che ebbe una vasta diffusione nel Vecchio Continente dopo la scoperta delle Americhe, poiché aveva una resa molto maggiore rispetto agli altri cereali comunemente usati. Tuttavia, la sua ascesa si accompagnò alla diffusione di una malattia che seminò il panico sociale, dato che le sue cause erano ignote.
Tra il XVIII ed il XIX secolo anche l'Italia settentrionale, come molti altri paesi europei e dell'America del Nord, fu sconvolta da un'epidemia di pellagra, termine preso in prestito dal dialetto lombardo (pelle agra, ruvida), che rapidamente si diffondeva negli strati più poveri della popolazione e sembrava un morbo misterioso ed incurabile. Si scatenarono le ipotesi sull'eziologia e la più probabile sembrò essere l'ingestione di pannocchie marce.
I malati di pellagra presentavano le cosiddette 3D: dermatite, diarrea e demenza. Quelli dei paesi anglosassoni ne potevano aggiungere una quarta per death, morte, a cui quasi tutti i pazienti arrivavano dopo circa 3 o 4 anni dall'inizio dei sintomi. Va da sé che i poveretti soffrivano terribilmente e non potevano esporsi a lungo alla luce, poiché avevano una pelle sensibilissima.
La situazione era simile in molti paesi, anche negli Stati Uniti, in cui nel 1914 un brillante scienziato, il dottor Goldberger, volse lo sguardo verso questa nuova epidemia ed iniziò anche lui a cercarne le cause. Gli studi da lui compiuti in orfanotrofi e prigioni lo portarono a considerare falsa l'ipotesi ventilata da molti, secondo cui la malattia sarebbe stata infettiva, cioè originata da un batterio.
La sua osservazione era molto semplice: i detenuti o i bambini colpiti da pellagra non la trasmettevano mai al personale che si occupava di loro.
Sembrava una considerazione banale, ma l'esperienza di Goldberger in materia di epidemiologia lo rese sicuro di ciò. Inoltre, gli fece volgere lo sguardo alla dieta dei pazienti ed iniziò a pensare che la vera causa fosse una malnutrizione. Diminuendo la presenza di mais nella loro alimentazione e, dunque, sottoponendo i suoi “soggetti” ad una dieta più ricca di carne, latte e verdure, ottenne miglioramenti e guarigioni. A questo punto, però, nessuno gli credeva, perché le nuove idee hanno sempre difficoltà a farsi strada nell'opinione comune.
Che cosa fece, allora, il dottor Goldberger? Si fece iniettare il sangue di un malato di pellagra per dimostrare che non si trattava di un'infezione e, indovinate un po', sia lui che il suo staff non contrassero la malattia.
Malgrado ciò, i medici rimasero piuttosto scettici riguardo alle cause alimentari della pellagra. Ad ogni modo, Goldberger continuò per tutta la vita a difendere la sua idea e ad usarla come bandiera per chiedere a gran voce miglioramenti delle condizioni di vita ed alimentari delle fasce più povere della popolazione.
In Italia l'idea di Goldberger sarebbe stata ampiamente dimostrata, dato che la maggior parte dei pazienti apparteneva a fasce povere di popolazione, le quali basavano la loro dieta interamente sul mais. In Veneto, regione in cui si riscontrarono sempre i picchi più alti di presenza di pellagra, i contadini si cibavano di circa due o tre chili di polenta al giorno, non avendo altro di cui nutrirsi.
Nel corso del XX secolo anche in Europa la ricerca fece dei progressi notevoli, arrivando a confermare che la causa della pellagra era l'insufficienza nella dieta di niacina (vitamina PP) o dell'aminoacido triptofano, necessario alla sua costruzione.
Il mais da solo non è un alimento completo, perciò chi si cibava solo di esso andava incontro ad un grave deficit nutrizionale. La soluzione per arginare l'epidemia era variare la propria dieta, integrandola con altri alimenti che avrebbero fornito vitamina PP e triptofano.
Ora, però, sorge spontanea una domanda: le popolazioni dell'America Centrale che da sempre hanno basato la loro dieta sul mais, come facevano ad essere sane o comunque poco intaccate dalla malattia?
La risposta giace nel loro bagaglio culturale. Da sempre i popoli azteco e maya avevano come tradizione quella di bollire il mais con acqua e bicarbonato di calcio e poi lasciarlo riposare per una notte. Il processo si chiama nixtamalizzazione ed aiuta il mais a liberare niacina, rendendola disponibile per il consumo di chi ingerisce l'alimento. Ovviamente al di fuori dell'America Centrale la procedura non era nota, perciò il mais veniva solamente bollito in acqua, con le infauste conseguenze che ora conosciamo.
Per concludere, nel labirinto delle ipotesi, a volte la soluzione giunge inaspettata da un angolo che non avevamo mai pensato di esplorare.

giovedì 14 agosto 2014

Mai dire mais - Campo di Granturco in centro a Milano

Metti una mattina in cui devi andare a fare una commissione.
E' Agosto e, anche se non fa caldissimo, sudi abbastanza, ma non demordi e confidi nelle ultime energie del caffè bevuto un'ora prima. Dove possibile, cerchi l'ombra, e dove non è possibile acceleri l'andatura nei tratti al sole. Giusto così, per aumentare la sudorazione.
Sei quasi arrivata a destinazione, ancora pochi metri e potrai farti accettare alla nuca da quell'amichevole aria condizionata all'ingresso di ogni negozio.
Ti giri un attimo a sinistra e vedi … un campo di mais!
No, no, un momento, qui siamo davanti al Castello Sforzesco, in pieno centro a Milano, non in una scena di Children of the Corn (Grano rosso sangue nella versione italiana).
Sarà un colpo di calore? Saranno ormai esaurite le forze derivanti dal caffè? Tutti dicono che la colazione è importante, sarà dunque la maledizione del nutrizionista o del dietologo che si abbatte su di me?
Niente di tutto ciò: il campo di mais c'è davvero e ci sono anche un sacco di turisti che si fotografano con lo sfondo del Castello e il mais; in effetti è una foto ricordo piuttosto strampalata.
Della serie: quest'estate sono stata a Milano e in un campo di mais. Nello stesso momento. 

Foto di Gea

Si tratta di un'installazione per Expo e si chiama Quantomais.

Ogni volta che sento dire “installazione” rabbrividisco. Probabilmente perché non sono del settore. La maggior parte non riesco a capirla, mi sembrano cose messe lì tanto per occupare spazio, anche perché non è che tu le guardi e basta. Bisogna leggere i cartelli esplicativi, di solito circa una decina, prima di comprendere il volo pindarico fatto dall'autore per arrivare a concepire una cosa che a te assomiglia ad uno scivolo ed invece rappresenta l'evoluzione vista con gli occhi di un capodoglio.
Torniamo a Quantomais. Si tratta di un campo di mais di 360 metri quadri messo a dimora a Giugno ad Abbiategrasso e trasportato in centro nottetempo a fine Luglio in vari bancali. Al momento viene curato lì, davanti al Castello, con un impianto di microirrigazione.
I bancali di mais sono disposti in modo da costituire corridoi e stanze interne, dove sono ospitate anche piante aromatiche e piante da orto.
In questo spazio si svolge un calendario di eventi densissimo, a base di musica, letture bendati e laboratori per i più piccoli.
Ora, di tutte le installazioni che ho visto in vita mia, almeno questa si configura come uno spazio per eventi, da vivere, un po' per tutte le età. Devo dire che trovarsi difronte ad un campo di mais all'improvviso nel centro di una città è piuttosto curioso. Se volete visitarlo, comunque, affrettatevi: a fine Agosto il campo verrà “smontato” ed i bancali con le piante ceduti a giardini, scuole ed università che ne faranno richiesta. Proprio così, esiste un bando di adozione per “riciclare l'installazione” e potete trovare tutti i dettagli nel sito internet dedicato.
Io comunque da Quantomais sono capitata per caso e sono rimasta colpita, anche se per le installazioni non ho proprio la passione!

Abbiamo già parlato di mais colorato in un post di Aprile.
Oggi ricorderemo due vignette che a me fanno sempre ridere.

"Ti avevo detto di mettere la protezione solare!"
"Fa caldo fuori?"
"Oh, stai zitto!"




Com'è fatto un chicco di mais e, soprattutto, cosa succede quando facciamo il pop corn?
Il chicco è costituito da tre strati.
Il più interno si chiama endosperma ed è quello che costituisce la maggior parte del chicco. Qui c'è soprattutto amido in granuli, inserito in una matrice proteica, ed una piccola parte di oli ed acqua.
Lo strato intermedio è definito germe e si può dividere in tre parti:
  • quella che, se piantiamo il chicco, darà origine alle foglie;
  • quella che costituirà le radici della nuova pianta;
  • la terza parte, fatta di oli vegetali, che darà energia alla pianta durante la crescita.
Lo strato più esterno, molto resistente, si chiama pericarpo e si compone essenzialmente di cellule morte e strati spugnosi che servono ad assorbire l'acqua necessaria per la germinazione.
Infine, possiamo inserire nella nostra descrizione anche la parte apicale del chicco, costituita di materiale fibroso che ha la funzione di connettere il chicco alla pannocchia.
Quando si fa il pop-corn succede una cosa piuttosto semplice a raccontarla così: il chicco esplode e si rivolta, l'interno esce e l'esterno si accartoccia su sé stesso rimanendo nella parte centrale del pop-corn.

Perchè accade? La causa sta nella struttura del chicco stesso, che si comporta come una piccola pentola a pressione, ma alla fine deve arrendersi alle leggi della fisica.
Una piccola parte dell'acqua contenuta nell'endosperma evapora e fa aumentare la pressione tra le pareti del chicco, le quali sono resistenti e dunque non cedono, creando l'effetto pentola a pressione accennato sopra. Il vapore rovente scioglie l'amido in granuli e lo fa mescolare con l'acqua allo stato liquido ancora presente, non evaporata a causa dell'aumento di pressione di cui parlavamo prima.
Nel frattempo, la temperatura interna del chicco continua ad aumentare, ed essendo il volume fisso, poiché è l'interno del chicco stesso, anche la pressione nell'endosperma aumenta, finchè il pericarpo non riesce più a sopportarla ed esplode.
L'acqua allo stato liquido evapora e fa raffreddare l'amido, che solidifica in schiuma bianca: ecco servito il vostro pop-corn!
Cosa c'è di più bello rispetto a pensare a questo piccolo miracolo che unisce la perfezione di un chicco di mais con il relax di una serata davanti ad un bel film?
Un video alla moviola dei chicchi che scoppiano!
Godetevelo e la prossima volta fate una bella figura con gli amici!

venerdì 25 aprile 2014

Gli abiti nuovi del Granturco

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Se non avreste mai creduto di poter vedere in vita vostra una pannocchia di mais di un colore diverso dal giallo, dovrete cambiare idea dopo aver letto questo post.
Che ci crediate o no, esiste una varietà di mais colorato. O meglio, esiste da un po' di tempo, grazie alla pazienza e ad un certo grado di dimestichezza con la coltivazione delle piante di granoturco di Carl Barnes, agricoltore statunitense.
Il signor Barnes, per metà di origine Cherokee, tuttora vivente in Oklahoma, ha voluto cercare il legame con le sue origini piantando antiche varietà di mais che erano cadute nell'oblio, soppiantate da tipologie più resistenti a freddo ed intemperie.
Man mano che il suo mais cresceva ha voluto immaginare che ci fosse la possibilità di crearne una varietà con chicchi di colore diverso l'uno dall'altro, tutti nella stessa tonalità oppure belle pannocchie color arcobaleno.
Non storcete il naso, non sto parlando dei tanto temuti OGM, di cui di frequente si parla molto e a sproposito, ma di un uomo che ha dedicato gran parte della sua esistenza a individuare piante che avessero particolari colori della pannocchia. In seguito le ha selezionate e quindi ripiantate, osservando cosa accadeva nella generazione successiva.
Per completezza, è bene ricordare che il colore della pannocchia di mais non è influenzato dall'ambiente esterno, come invece accade per altre caratteristiche della pianta, come ad esempio l'altezza. Quindi la pannocchia multicolore deriva solo da incroci effettuati da mano umana.
Non si sa con precisione per quanti anni Barnes abbia lavorato a quello che viene chiamato Glass Gem Corn o Mais Gemma di vetro, scegliendo le piante che producevano chicchi dai colori vividi, ma il risultato è visivamente straordinario.
Gran parte della diversità del mais che esisteva in passato si è ormai estinta, probabilmente a causa della diffusione della monocoltivazione e delle piante che danno una resa migliore e possiedono maggiore resistenza. Ciò ha inevitabilmente causato una restrizione della biodiversità vegetale e, per tutte le piante che facevano fatica ad essere produttive e resistenti, il pericolo di scomparsa.
Nelle foto potete vedere solo alcune delle varietà di colore delle pannocchie di mais, normalmente commestibili e che danno la possibilità di piantare i semi per ottenere una nuova generazione.


Glass Gem Corn - via Seeds Trust Facebook page


La domanda è lecita: ma a che cosa serve una pannocchia multicolore, se quelle gialle sono già commestibili?
La mia personale opinione è che in un mondo in costante omologazione, fatto che ha i suoi pro ed i suoi contro indubbiamente, un po' di diversità in più non fa mai male.
La pannocchia colorata onora il lavoro di un uomo con una forte passione ed una costanza nella ricerca e nella selezione che sarebbe bene tenere a mente.
Stagione dopo stagione il suo mais è cresciuto, lo ha sfamato e gli ha permesso di esternare in qualche modo la sua creatività.
Naturalmente Carl Barnes è stato solo il primo di una schiera di agricoltori, di professione e non, che hanno iniziato a piantare i semi del suo mais. I preziosi chicchi furono donati infatti alla Seeds Trust, una piccola azienda dell'Arizona a conduzione familiare, che si incaricò di preservare questa varietà di mais. Più tardi l'azienda si è evoluta nella NATIVE Seeds/Search, un'organizzazione no profit che si occupa della conservazione di semi di particolari specie vegetali (www.nativeseeds.org).
C'è un vero e proprio negozio online da cui si possono ordinare semi di diverse piante, tra cui ovviamente il famoso Glass Gem Corn, un tipo di mais che non si mangia direttamente dalla pannocchia, ma è ottimo per ricavarne farina e popcorn.
Non potrete tuttavia mostrare agli amici convenuti nella vostra casa il pop corn colorato; mi dispiace informarvi che è bianco!

Nel 1983 Barbara McClintock ottenne il premio Nobel per i suoi studi e le sue scoperte riguardanti gli elementi trasponibili del genoma del mais.
I trasposoni sono delle parti di DNA che saltellano qua e là nel genoma (succede anche in quello umano) e provocano ripercussioni sull'espressione genica: un gene può smettere di produrre proteine o risultare inalterato dall'inserzione di un elemento trasponibile nella sua sequenza.
Il fatto più eclatante ed anche quello che permise alla McClintock di ottenere l'ambito premio fu quello di sfatare il mito di un genoma immobile.
Senza approfondire troppo il concetto, esistono due tipologie di trasposoni: quelli che riescono a muoversi nel genoma da soli e quelli che non ci riescono.
Un po' come quando ti raccontano la storia che nella vita esistono due gruppi di persone: quelle che stanno alla guida e quelle sedute sul sedile del passeggero. I primi riescono ad andare dove vogliono e gli altri invece devono per forza farsi portare.
A differenza dei meccanismi di ricombinazione genica, che sono mirati ad una determinata posizione sui geni, la trasposizione è casuale e può avvenire in ciascuno dei 10 cromosomi del mais.
Un chicco di mais è composto da tre strati: l'endosperma, la parte più interna, il pericarpo e l'aleurone, la parte più esterna.
La colorazione dei chicchi è regolata dalla sovrapposizione di questi tre strati. Essi possono assumere diverse sfumature a seconda dei geni che si esprimono o addirittura nessuna colorazione, come nel caso dell'endosperma, se il trasposone interrompe il gene che di solito fa produrre la proteina responsabile del colore giallo.
Parlando con una mia amica di questo argomento, lei mi ha fatto una domanda che al principio mi ha spiazzata, poi mi ha spinta a fare ulteriori ricerche.
Ve la scrivo.
Molti dei colori che vediamo in queste pannocchie sono secondari, formati cioè per sovrapposizione dei diversi strati del chicco, cosa che torna anche a me che di disegno e pittura ci capisco poco o niente.
Il giallo e il rosso, colori primari, risultano normali anche nell'esperienza comune, visto che di pannocchie gialle ne avrete viste a bizzeffe e quelle rosse sono dovute ad un endosperma bianco a cui si sovrappongono strati rossastri, ricchi di antocianine e flobafeni, presenti nei due strati più superficiali del chicco.
Ma il blu, come ve lo spiegate? E' un colore primario, quindi il gioco delle sovrapposizioni non funziona più, tuttavia gli strati più esterni sono rossastri di solito, perciò come si fa ad ottenere una tinta del genere?
Esiste il mais blu, gentili lettori, ed è semplicemente un mais normale con un' altissima concentrazione di antocianine negli strati più superficiali del chicco, che da rossastri arrivano ad una colorazione che vira al blu.
Si tratta di una di quelle antiche varietà di mais di cui parlavamo all'inizio di questo post, coltivata un tempo dalle tribù native americane degli Hopi e ancora oggi in alcuni stati come l'Arizona ed il New Mexico, oltre che in Messico.
Per dire, negli Stati Uniti si trovano anche le patatine di mais blu.
Quindi anche per i chicchi blu si può parlare di sovrapposizione di strati ricchissimi di antocianine su un endosperma base bianco.

Per ulteriori approfondimenti consiglio questo post che per me è stato molto chiarificatore: Jumping genes make fall come alive dal blog di Kirk Maxey.

Oltre a questo, vorrei personalmente ringraziare il curatore di quest'ultimo blog per la sua gentile disponibilità e dedicare a lui questo piccolo scritto.