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venerdì 19 settembre 2014

Una storia di fantasmi ed avocado

Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un post del sito Brainpickings riguardante un libro, scritto da Connie Barlow, intitolato “The ghosts of evolution”.


Non so ancora dare un'opinione completa su tutto lo scritto, tuttavia ho letto con interesse, forse anche con il solito scetticismo, le prime pagine e sono rimasta colpita da quello che l'autrice racconta riguardo l'avocado.
Questo frutto, proveniente dall'America Centrale, proviene da un albero che è stato chiamato, nella nomenclatura scientifica, Persea americana. Quasi tutti almeno una volta nella vita abbiamo guardato al supermercato questi frutti piriformi, di un verde brillante e dalla buccia lucida e liscia. In pochi l'abbiamo portato a casa per farne qualcosa in cucina. Tuttavia, superato lo scoglio dell'acquisto, la sorpresa che ci aspetta dentro all'avocado è un unico grande seme scuro o, se ci riflettete bene, un enorme seme. Lì dentro la pianta ha nascosto il germe del nuovo albero ed anche tutta una serie di risorse affinché, nel caso il frutto cadesse a terra e non avesse modo di germinare, esso possa almeno contare sulle riserve immagazzinate nel seme stesso anche fino ad un anno intero.


Tutto ciò è molto commovente da parte di mamma avocado, se però facciamo quattro passi nella botanica, ci accorgiamo subito che c'è qualcosa che non va.
Il proposito di tutte le piante è produrre moltissimi semi che poi verranno dispersi in tanti modi: uno fra tutti, gli animali che mangeranno il frutto della pianta, lo digeriranno e faranno funzionare il loro intestino a distanza dalla pianta madre. Un altro albero crescerà lì dove l'animale ha lasciato i suoi escrementi.
Ora ditemi voi, quale animale vivente oggi può ingollare tutto intero il seme dell'avocado? Diciamo tutto intero perché la pianta ha evoluto un accorgimento per cui, se il seme viene frantumato, si liberano delle tossine che danno un cattivo sapore. Mamma avocado fa le cose per bene e, per i motivi esposti sopra, non permette che il seme possa essere rotto, mettendo a repentaglio le risorse fornite all'embrione per la sua delicata crescita.
La risposta è, allo stesso tempo, semplice ed affascinante.
L'avocado è nato e cresciuto nel Pleistocene ed ha evoluto le fattezze del suo frutto per irretire la megafauna vivente nella stessa epoca, attirata dalla sua polpa brillante e gustosa e perfettamente in grado di ingoiare un seme di quelle proporzioni senza soffocare e senza provare nemmeno a frantumarlo. Il loro esofago ed in generale il loro apparato digerente erano del tutto capaci di digerire la polpa e far uscire alla fine del “tubo” il seme, insieme a tutto il risultato della digestione, magari a qualche chilometro di distanza. La volontà dell'albero di avocado di propagare la propria progenie era fatta.
Per megafauna intendiamo, per fare lo stesso esempio del libro di cui parlavo all'inizio, dei Gomfoteridi, animali simili agli odierni elefanti, estinti ormai dalla fine del Pleistocene.



Anche i bradipi terrestri (ground sloths) erano tra coloro che si cibavano di avocado senza problemi, ma anch'essi sono ormai estinti.


Facendo due conti, quindi, l'autrice Barlow, sulla scia degli studi proposti dal biologo Daniel H. Janzen, definisce casi come quello dell'avocado degli “anacronismi evoluzionistici”: una pianta ha evoluto le proprie caratteristiche per coniugarle con quelle dei consumatori del frutto, in questo caso i consumatori del Pleistocene. Purtroppo, gli animali in grado di disperdere il loro seme lontano non esistono più da tempo.
Per fortuna dell'avocado, tuttavia, la stessa polpa del frutto ha richiamato un gran numero di consumatori nel tempo, dato il suo aspetto succulento ed i suoi interessanti valori nutrizionali e, quindi, ancora oggi possiamo mangiare la guacamole. 

“Un avocado è fatto per un mondo che non esiste più. Il frutto di questa pianta è un anacronismo ecologico.
I suoi partner mancanti sono i fantasmi dell'evoluzione.”
- Connie Barlow -