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venerdì 12 settembre 2014

Ehi! Un topo! Ma no, è un' arvicola!

Cari lettori, causa contrattempo tecnico, questa settimana Rifiuto Biologico vi regala solo un breve, ma importante, aggiornamento.
Per la prima volta è stato avvistato sulla piana del lago di Pilato, all'interno del Parco dei Monti Sibillini, un piccolo amico: l'arvicola delle nevi (Chionomys nivalis).

L' arvicola fa "cheese"!
Foto ANSA
Arvicola delle nevi
(Chionomys nivalis)
Foto di Girardi F.

Si tratta di un esemplare appartenente alla famiglia dei Cricetidi, con folta pelliccia grigiastra e piccole orecchie. Le zampe posteriori sono piuttosto lunghe, tutto il corpo può avere una lunghezza che varia dagli 11 ai 14 centimetri, cui si aggiunge una coda lunga tra i 5 e i 7 centimetri.
So che per alcuni di voi, a guardare la foto, l'arvicola sembrerà solo l'ennesimo topolone disgustoso, tuttavia averlo come confermato abitante dei Sibillini è un grande traguardo: vuol dire che in questa zona il disturbo creato dalla presenza umana è ancora piuttosto basso.
Se seguite il blog da qualche mese conoscerete già questa area dei Sibillini, nella regione Marche, poiché Rifiuto Biologico se ne è occupato in un guest post in collaborazione con “I love Marche”. Sempre qui, ma nelle acque del lago di Pilato, infatti, vive una specie endemica: il crostaceo Chirocefalo di Marchesoni.
Per l'arvicola la storia è un po' diversa: almeno un esemplare era stato avvistato alla fine degli anni '70, ma non c'era stata nessuna conferma negli anni successivi.
Questo esemplare di roditore è comune nelle zone di alta montagna dell' Europa centro-meridionale, nell' Asia centrale ed occidentale ed in Italia sulle Alpi, sugli Appennini settentrionali ed in quelli abruzzesi.
Ieri, dopo lunga attesa, uno degli zoologi coinvolti nel progetto di ricerca, condotto dal Parco dei Sibillini con i fondi del Ministero dell'Ambiente per il monitoraggio della biodiversità, è riuscito ad acciuffare un'arvicola. I ricercatori hanno quindi proceduto al riconoscimento, confermando che si trattasse proprio di quella specie, e poi hanno rilasciato il roditore, che è tornato a zampettare sereno sulla pietraia.
La biodiversità del Parco aumenta, dunque, e lo stesso Ente Parco ha provveduto a rilasciare una dichiarazione in cui, oltre all'orgoglio per il nuovo piccolo abitante, si invitano i visitatori alla cautela ed al rispetto dell'ambiente durante le escursioni.
E' sempre bello poter parlare di queste novità, spero che apprezziate anche voi l'importanza della notizia.

mercoledì 2 luglio 2014

Tyger! Tyger! burning ... WHITE

Le tigri si esprimono attraverso una varietà di ruggiti, il più fragoroso dei quali è probabilmente il potente aaonh a cui maschi e femmine in calore ricorrono soprattutto durante la stagione degli accoppiamenti. È un richiamo udibile a grandi distanze e se lo ascoltate da vicino rimanete pietrificati. Poi c'è il woof delle tigri colte di sorpresa: un concentrato di furia secca e penetrante come lo scoppio di una bomba. Quando attaccano, i ruggiti sono gutturali e rauchi. Il brontolio rabbioso che usano a scopo di minaccia ha un timbro ancora diverso. Le tigri ringhiano e soffiano:
a seconda dello stato d'animo, questi versi ricordano il fruscio delle foglie d'autunno - solo più energico - oppure un'enorme porta dai cardini arrugginiti che si apre lentamente. In entrambi i casi l'effetto è agghiacciante. Le tigri gemono e grugniscono; fanno perfino le fusa, anche se più raramente dei gatti e soltanto espirando. (Solo i gatti fanno le fusa anche inspirando.) […]
Le tigri fanno persino miao, con un'inflessione simile a quella dei gatti, ma più sonora e dalla tonalità più profonda, che non invoglia certo a chinarsi e prenderle in braccio.
E le tigri possono anche stare in silenzio, un silenzio totale e maestoso.
Avevo sentito tutti questi versi durante la mia infanzia. Ma non il prusten.
Se ero al corrente della sua esistenza, era perché papà me ne aveva parlato. Ne aveva letto la descrizione nella letteratura zoologica. Ma l'aveva sentito solo una volta, durante una visita allo zoo di Mysore, nell'ospedale degli animali, da un giovane esemplare maschio con la polmonite.
Il prusten è il più pacato fra i versi della tigre, uno sbuffo dal naso che esprime cordialità e intenzioni pacifiche.
Richard Parker lo fece un'altra volta, accompagnandolo con un lieve movimento del capo. Chiunque, guardandolo, avrebbe giurato che mi stesse domandando qualcosa.

- Vita di Pi -

La Natura ci sorprende sempre, nemmeno una volta lascia insoddisfatta la nostra curiosità.
Io, ad esempio, non sapevo che la tigre facesse tutti questi versi e con questa varietà di significati. Mi ci è voluta la lettura del libro di Yann Martel per scoprirlo. Libro che è diventato ancora più noto per il pluripremiato film di Ang Lee da esso tratto.
La storia è quella di un ragazzino indiano, Piscine Molitor Patel, la cui famiglia possiede uno zoo. La devozione per gli animali fa in modo che in lui nasca una profonda ammirazione per tutte le creature ospitate nelle gabbie. La zoologia, insieme con le religioni, diventa la sua passione. Purtroppo gli affari non vanno bene per il padre, che decide di vendere gli animali e trasferirsi con la famiglia in Canada. La nave su cui viaggia la famiglia di Piscine, per gli amici Pi, sparisce durante una tempesta in mare aperto e lui sarà uno dei due unici superstiti.
L'altro è Richard Parker, un esemplare maschio di tigre del Bengala, con cui Pi dovrà condividere scialuppa ed avventure in mezzo all'Oceano Pacifico.
Non preoccupatevi, non vi ho svelato praticamente nulla del libro. La storia è molto più ricca di sfaccettature rispetto a quelle a cui accennavo poco sopra.
Su tutto emerge, maestosa, la figura della tigre, uno dei miei animali preferiti: fiera, nobile e terribilmente selvaggia.
Se leggiamo la tassonomia, si tratta di un gattone gigante, che arriva a misurare quasi 4 metri per poco meno di 400 kg di peso. Il suo nome scientifico è Panthera tigris e condivide lo stesso genere con il leone, il leopardo ed il giaguaro. La tigre adulta è un animale ai vertici della catena alimentare nel suo ambiente naturale, un cosiddetto predatore alfa, che si ciba soprattutto di ungulati simili a cervi e bovini.
Un tempo esse erano diffuse in tutta l'Asia, dalla Turchia alla parte più ad Est della Russia, ma al giorno d'oggi il loro habitat è molto meno esteso, oltre ad essere frammentato ed in generale distrutto. Se ci aggiungiamo anche il bracconaggio non è difficile concludere che la tigre è un esemplare in pericolo di estinzione: all'inizio del ventesimo secolo se ne contavano circa 100.000 esemplari, al giorno d'oggi ce ne sono meno di 4000 che vivono nel loro habitat naturale.

La tigre è un animale solitario e sociale. 

Wow, come può essere? In generale ogni esemplare ha un proprio territorio, che a volte si sovrappone con quello di altre tigri, ma di solito succede solo ai maschi, che lo fanno per avere a disposizione più femmine nel periodo dell'accoppiamento. Quando si tratta di dividere una preda, tuttavia, non è inusuale che a cibarsene non sia solo chi l'ha uccisa, ma anche qualche femmina con i cuccioli.
La tigre ama, inoltre, fare il bagno: come darle torto, specialmente in questo periodo? Strano per essere un gatto, è vero.

Esistono sei specie di tigri tuttora viventi. Forse una delle più conosciute è la tigre del Bengala, che esiste anche nella variante bianca e nera. Infatti tutti noi siamo abituati a pensare ad un bel tigrottone arancione a strisce nere, ma in quanti hanno visto per caso una foto di una tigre bianca e nera ed hanno esclamato: “Caspita, anche le tigri possono essere albine!”.

Amici, non fatevi cogliere in fallo dal compare più saputello: la tigre bianca NON è una tigre albina, ma una tigre con una mutazione a carico di un particolare gene.


Una coppia di tigri bianche allo zoo di Haifa
Foto di Zvi Roger - Haifa Municipality

Procediamo con ordine, la melanina sappiamo che è un pigmento che dà colore alla pelle ed ai capelli o più in generale ai peli del nostro corpo e del corpo degli animali. Ne esistono due varianti: la feomelanina produce colorazioni che vanno dal giallo al rossiccio, l'eumelanina dà colorazioni che vanno dal marrone al nero. Le tigri bianche non producono feomelanina, ma continuano a poter produrre eumelanina, per questo hanno un manto bianco a strisce nere.
Una tigre albina, invece, non potrebbe produrre nessun tipo di melanina e quindi sarebbe completamente bianca.

Uno studio cinese del 2013, che come sempre potete leggere per intero utilizzando i riferimenti a fondo pagina, si è concentrato sulle motivazioni della particolare colorazione della tigre e ne ha tratto alcune interessanti conclusioni.
Ci si è concentrati sui geni che erano i principali candidati per la colorazione del manto della tigre e si è visto che in particolare il gene SLC45A2 potrebbe essere la causa di tutto.
Questo gene codifica una proteina chiamata con il difficile nome di trasportatore proteico associato alla membrana, che nello specifico altro non è che una delle tante tipologie di porte girevoli che possediamo nella membrana di ognuna delle nostre cellule.
E' semplice: la cellula per sopravvivere deve rimanere un sistema controllato, quindi per far entrare ed uscire sostanze varie da essa è necessario utilizzare degli stratagemmi; uno di questi è il trasportatore di membrana, che assomiglia a quelle cabine che spesso sono all'ingresso delle banche, in cui entri, ti si chiude la porta dietro e poi ti si riapre davanti per lasciarti entrare nella banca vera e propria. In più, i trasportatori di membrana, all'interno, hanno l'esatta conformazione della molecola che devono trasportare.
Per fortuna quest'ultima cosa ce la risparmiano ancora nelle banche, sebbene spesso ci si chieda anche cos'altro dovrai lasciare nella cassettina all'ingresso, visto che la cabina continua a suonare e a non volerti far entrare.
Ecco, comunque, spiegata in parole povere la funzione delle proteine trasportatrici di membrana.
In particolare SLC45A2 si occupa della produzione della melanina e sembra che il cambiamento in un singolo mattoncino di tutta la proteina, sia responsabile per la mancata sintesi di feomelanina e dunque per l'esistenza di tigri bianche e nere. Volete sapere come? Facile, cambia la forma della “cabina” interna al trasportatore, quindi la molecola che prima veniva fatta entrare o uscire senza problemi, ora non ci entra più. Di conseguenza non si hanno più mattoni per produrre feomelanina.
La totalità delle tigri bianche oggi viventi sono state fatte nascere in cattività, grazie ad incroci controllati all'interno degli zoo. La variante bianca in natura è stata avvistata ed uccisa per l'ultima volta nel 1958, tuttavia non è detto che non ne esistano altre, data la rarità della mutazione.
Lo studio citato ha proprio voluto dimostrare che la mutazione a carico del gene SLC45A2 è naturale e non si produce solo in cattività.
Al contrario, gli individui fatti nascere da incroci controllati spesso vengono al mondo già morti o presentano deformità ed in generale non raggiungono l'età adulta. Le problematiche a carico dei cuccioli, infatti, derivano da fenomeni di inbreeding, incrocio tra individui troppo “vicini” geneticamente, mentre non ci sono in natura, dove le tigri bianche raggiungono tranquillamente la maturità.
Bene, ora che avete fatto una bella scorpacciata di genetica, distendete i neuroni con il post seguente ... questa settimana vi viziamo proprio!



giovedì 8 maggio 2014

Elogio della lentezza - Il pesce elefante

Al secondo anno di università in molti abbiamo sbattuto la faccia contro l'Anatomia Comparata dei Vertebrati. Il nostro professore sembrava poco evoluto nei rapporti umani e le sue lezioni erano delle lunghe dissertazioni su alberi filogenetici lunghissimi e complicati. Come se non bastasse, a questa sua scarsa propensione alla giovialità si aggiungeva il fatto che quasi tutti gli studenti lasciavano il suo esame per ultimo e lo supplicavano di lasciarli liberi dal giogo universitario anche con un diciassette e tre quarti e un calcione nel didietro.

Lui, in modo piuttosto prevedibile, non era contento e bocciava quasi tutti.

Quindi i suoi esami erano le sedi in cui venivano alimentate le più bieche leggende metropolitane, tipo che se facevi la tesi con lui ti faceva stare delle giornate intere a contare le scaglie di un pesce al microscopio, oppure che all'imbrunire diventasse Mister Hyde.

Il suo esame consisteva unicamente di un colloquio orale su un tomo scritto piccolissimo, che se avevi il libro fotocopiato non riuscivi a prendere un voto alto al primo appello perché al capitolo dieci i tuoi genitori dovevano portarti dall'oculista. 
La stranezza del professore risiedeva anche nel fatto che, al momento della tua grande prova, lui ti metteva davanti un modellino e ti chiedeva di spiegarlo. In molti erano sopraffatti dalla richiesta di spiegazione su un gigantesco uovo di struzzo che era effettivamente accanto a te mentre tentavi di non svenire sulla sedia.

Tuttavia, io ricordo che, a parte un momentaneo senso di sconvolgimento quando ti accorgevi che non stavi più parlando di animali “senza spina dorsale” e che l'evoluzione di rettili e anfibi apparteneva, in fondo in fondo, allo stesso filo che giustificava la tua presenza sulla terra, la materia era stupenda. Difficile, ramificata, mnemonica in molti punti, ma deliziosa. A distanza di anni (ahimé) non ricordo nulla di particolare, ma ricordo con meraviglia la soddisfazione di vedere i tanti apparati che abbiamo ancora oggi in corpo mutare nel tempo e nei vari gruppi.

Non appena i violini avranno smesso di suonare questa bella melodia nostalgica che accompagna il mio momento della memoria, inizieremo a parlare dell'argomento di oggi: il pesce elefante, diverso dallo squalo elefante, per chi avesse il dubbio.

Intanto ha una faccia piuttosto simpatica e possiede una proboscide molle con cui cerca sotto alla sabbia dei fondali il suo cibo, di solito costituito da crostacei. Il pesce elefante vive nei mari dell'Australia e della Nuova Zelanda ed il suo nome scientifico è Callorhinchus milii.

A gennaio di quest'anno è stato pubblicato un interessante articolo su Nature che parlava con enfasi estrema del fatto che il genoma del pesce elefante era stato finalmente sequenziato.

Grida di stupore degli scienziati, groupie impazzite sotto alla sede della conosciuta rivista scientifica.

B. Venkatesh, uno degli autori dello studio, con un pesce elefante.
"Lo sequenzio io il tuo genoma!"
(Courtesy of B. Venkatesh)
 
In generale, è una cosa che interessa soltanto un ristretto gruppo di persone addette ai lavori, come spesso accade quando si va nello specifico di qualsiasi materia. Per dire, è lo stesso effetto che mi farebbe sapere che Leopardi come spuntino pomeridiano mangiava un kiwi. Io probabilmente mi chiederei dove li trovava all'epoca, ma gli studiosi di letteratura parlerebbero per giorni di come il kiwi abbia influenzato la poetica di Giacomo.

Senza un contesto è difficile far quadrare le cose, nel caso del pesce elefante o callorinco il sequenziamento è importante perché innanzitutto ci dice che ha un genoma abbastanza limitato, circa un terzo di quello umano. In secondo luogo questo genoma è molto “datato”, se mi passate il termine.

Il callorinco è stato definito come l'animale in assoluto più lento al mondo ad evolvere.

Il suo DNA è oggetto di studio perché questo pesce si può definire un fossile vivente. Studiando i suoi geni, è possibile avere una fotografia, da mettere man mano a fuoco con successivi studi, dei primi stadi dell'evoluzione.

Il termine fossile vivente fu coniato da Charles Darwin per indicare quegli organismi animali e vegetali che hanno avuto un tasso di evoluzione molto basso e perciò sono rimasti invariati per centinaia di migliaia di anni. Un esempio è il Ginkgo biloba, una pianta che esisteva ai tempi dei dinosauri, ed era alta dai 30 ai 40 metri.

Parlando del regno animale, tuttavia, in principio c'erano gli gnatostomi: un gruppone in cui sono stati inseriti tutti i Vertebrati provvisti di mandibole.

La storia evolutiva procede dai pesci (cartilaginei e poi ossei), agli anfibi, ai rettili, agli uccelli e continua con i mammiferi. E' chiaro che dei gruppi più recenti abbiamo moltissime testimonianze, ma è altrettanto ovvio che studi sul genoma dei cosiddetti fossili viventi ci aiuta a capire le tappe evolutive delle specie più antiche.

Dagli gnatostomi, infatti, nascono due gruppi diversi tra loro: i pesci cartilaginei e quelli ossei, distinti tra loro per l'elemento che forma il loro scheletro. Da un lato abbiamo infatti la cartilagine, dall'altro, appunto, il tessuto osseo.

Il pesce elefante ha un genoma talmente “vecchio” che è più simile a quello dei primi gnatostomi di circa 450 milioni di anni fa, rispetto ai pesci ossei odierni, suoi non troppo lontani cugini.

E' importante studiarne il contenuto per conoscere meglio le radici del processo evolutivo che ha portato fino a noi.
Lo studio in questione è stato pubblicato da un gruppo di ricercatori di Singapore e St Louis e lo potete leggere qui.
Tra le altre cose, questa ricerca potrebbe riuscire a spiegare il motivo per cui i pesci ossei hanno le ossa e quelli cartilaginei no. L'ipotesi fatta dagli scienziati è che al pesce elefante manchino i geni per alcune proteine che legano il calcio e promuovono l'ossificazione.

Semplicemente, non le producono perchè nel loro DNA non ci sono le istruzioni per farlo.

Infatti, in esperimenti su pesci ossei in cui sono stati silenziati i geni che effettivamente sono assenti nel callorinco, si è visto che lo scheletro dei pesciolini in esame rimaneva costituito di cartilagine.

Lo studio sul genoma del pesce elefante permetterà anche di imparare qualcosa di più sui meccanismi di immunità specifica del nostro organismo, un altro sguardo alle radici per capire meglio il funzionamento odierno del nostro sistema immunitario.

A cosa serve tutto ciò? A fare luce sui meccanismi evolutivi, che spesso si rivelano concatenati anche se ad un primo sguardo possono sembrare totalmente estranei.

Per fortuna la Natura non ci ha lasciato orfani di questi animali dall'antico retaggio ancora scritto nel DNA e ci permette di guardare indietro per andare avanti con i nostri studi.

A volte, la lentezza è un pregio.