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martedì 24 giugno 2014

Solstizio d' Estate ai piedi di due Ginkgo biloba

Cari lettori di Rifiuto Biologico, è da un paio di settimane che non mi leggete. 
Invece di tediarvi con scuse e magari bugie, spero che possiate essere felici di sapere che da oggi il blog verrà arricchito con tantissimi argomenti che derivano proprio dalle mie settimane di silenzio. 
  

Prima di tutto, benvenuta Estate!
Il 21 giugno, alle ore 10.51, c'è stato il Solstizio d'estate, il giorno più lungo dell'anno e di conseguenza la notte più corta. Una giornata da reclusi per i vampiri, bisogna considerarlo.

Orto Botanico di Brera
Foto di Gea

Il 21 ed il 22 giugno si è svolta, proprio in occasione di questa ricorrenza, la Festa del Solstizio d'Estate negli Orti Botanici della Lombardia (www.reteortibotanicilombardia.it), arrivata alla sua undicesima edizione.
Gli Orti hanno aperto le porte al pubblico accogliendolo con laboratori, visite guidate, mostre ed eventi per scoprire le meraviglie della botanica ed affascinare persone di ogni età.
Per quanto mi riguarda, ho avuto l'occasione di visitare l'Orto Botanico di Brera e di portarmi a casa un'esperienza unica … ed i semi di una piantina che probabilmente farà la gioia della mia mamma, dato che a casa mia ultimamente muoiono anche le piante grasse.
L'Orto Botanico si trova nel cuore del centro storico di Milano.
Fin dall'ingresso sembra di arrivare in un posto benedetto, senza il frastuono del traffico e con alberi altissimi a fare da tetto. Non si tratta di un posto immenso, sono soltanto 5000 metri quadrati alle spalle del palazzo che ospita la famosa Pinacoteca di Brera.

Retro del Palazzo della Pinacoteca di Brera
Foto di Gea

L'Orto nella sua attuale configurazione fu fondato da Maria Teresa d'Austria nel 1774 con scopi scientifici e didattici. Nel sito web dedicato (www.brera.unimi.it) se ne possono leggere le alterne vicende fino alla riapertura, dopo il restauro, nel 2001.
La suddivisione fittizia in due parti fa sì che riusciamo ad ammirare per prime le aiuole recintate da mattoncini che risalgono all'epoca della sua fondazione e, in fondo, uno spazio circondato da alberi molto antichi, tra cui due esemplari di Ginkgo biloba, la cui foglia è anche il simbolo dell'Orto stesso.
A questo punto dovreste esclamare: “Ma certo! Il Ginkgo! Ne abbiamo già letto in uno degli scorsi post!”
Lo state facendo? Bravissimi!
Non lo state facendo? Va bè, erano soltanto due righe, potrebbe esservi passato sotto al naso senza che ve ne siate accorti.
Rimediate rileggendo il post sul pesce elefante.

Ginkgo biloba
Philipp Franz von Siebold and Joseph Gerhard Zuccarini
Flora Japonica, Sectio Prima (Tafelband)

Il Ginkgo biloba è un albero originario della Cina. Esisteva già in epoca mesozoica, con le sue foglie divise in due e l'eleganza del suo tronco.
Si tratta di un fossile vivente, un organismo il cui DNA è rimasto al riparo da molti fenomeni mutazionali, rendendo il genoma degli alberi di adesso sovrapponibile a quello degli alberi del Mesozoico.
Qui all'Orto Botanico di Brera si possono ammirare due esemplari importati dalla Cina nel 1775, un maschio ed una femmina. Infatti, il Ginkgo è una pianta che si definisce dioica, cioè possiede strutture fertili maschili e femminili su piante diverse, diversamente da molte altre piante che invece sono maschi e femmine insieme sulla stessa pianta, in modo piuttosto pratico per la loro riproduzione.
L'impollinazione dei fiori è anemofila, cioè dipende dal vento e non, ad esempio, dagli insetti, come siamo forse più abituati a pensare. Questo tipo di impollinazione è considerato tipico di piante molto primitive, per l'ovvia ragione che garantisce un minor successo nella fecondazione rispetto a quanto avviene con il trasporto del polline da parte degli insetti.
Da questo derivano due conseguenze:
  • la pianta deve produrre una quantità molto maggiore di polline per assicurarsi tante possibilità di discendenza;
  • la pianta non deve agghindarsi per attirare gli insetti e favorire l'impollinazione, né produce nettare. Le piante con fecondazione anemofila hanno però bisogno del vento per portare a termine la loro missione e per questo hanno evoluto altri stratagemmi per moltiplicare le loro possibilità.

Il Ginkgo viene considerata una pianta dalle potenzialità antiossidanti, poiché contiene molti polifenoli. Ancora non è stato confermato scientificamente il fatto che le stesse sostanze possano aiutare anche nei disturbi della memoria, come la malattia di Alzheimer.
Sembra invece che il consumo di Ginkgo biloba aiuti la circolazione del sangue, motivo per cui è spesso tra i componenti di rimedi naturali che contrastano la fragilità capillare e la comparsa di varici.
Per lungo tempo il Ginkgo biloba è stato coltivato dai monaci buddisti cinesi e non è raro trovarlo accanto ai templi o come ornamento nei giardini orientali.
I suoi principi attivi ne facevano l'ingrediente principale del tè dell'eterna giovinezza e la stessa foglia bilobata è stata associata nella filosofia orientale al principio dello Yin e dello Yang, secondo cui la realtà è governata dagli opposti (basso e alto, maschio e femmina, bene e male).
Una pianta molto misteriosa, conservata in uno scrigno che sembra impossibile si trovi nel centro storico di Milano.
La bellezza di una visita all'Orto Botanico di Brera, oltre alla possibilità di aggirarsi liberamente tra le aiuole ed alle tantissime attività che esso offre per tutte le età ed in tutte le stagioni, sta nel fatto che nei cartelli esplicativi sparsi qua e là c'è sempre una frase di un poeta o di uno scrittore “a tema”.
Vi propongo quella sul Ginkgo biloba:

Quando la bomba atomica trasformò la città di Hiroshima in un deserto annerito,
un vecchio ginkgo cadde fulminato vicino al centro dell' esplosione.

L'albero rimase calcinato come il tempio buddista che proteggeva.

Tre anni dopo, qualcuno scoprì che una lucina verde spuntava nel carbone. Il tronco morto aveva buttato fuori un germoglio. L'albero rinacque, aprì le braccia, fiorì.

Quel superstite della strage è ancora là. Perché si sappia.”



- Eduardo Galeano -



giovedì 8 maggio 2014

Elogio della lentezza - Il pesce elefante

Al secondo anno di università in molti abbiamo sbattuto la faccia contro l'Anatomia Comparata dei Vertebrati. Il nostro professore sembrava poco evoluto nei rapporti umani e le sue lezioni erano delle lunghe dissertazioni su alberi filogenetici lunghissimi e complicati. Come se non bastasse, a questa sua scarsa propensione alla giovialità si aggiungeva il fatto che quasi tutti gli studenti lasciavano il suo esame per ultimo e lo supplicavano di lasciarli liberi dal giogo universitario anche con un diciassette e tre quarti e un calcione nel didietro.

Lui, in modo piuttosto prevedibile, non era contento e bocciava quasi tutti.

Quindi i suoi esami erano le sedi in cui venivano alimentate le più bieche leggende metropolitane, tipo che se facevi la tesi con lui ti faceva stare delle giornate intere a contare le scaglie di un pesce al microscopio, oppure che all'imbrunire diventasse Mister Hyde.

Il suo esame consisteva unicamente di un colloquio orale su un tomo scritto piccolissimo, che se avevi il libro fotocopiato non riuscivi a prendere un voto alto al primo appello perché al capitolo dieci i tuoi genitori dovevano portarti dall'oculista. 
La stranezza del professore risiedeva anche nel fatto che, al momento della tua grande prova, lui ti metteva davanti un modellino e ti chiedeva di spiegarlo. In molti erano sopraffatti dalla richiesta di spiegazione su un gigantesco uovo di struzzo che era effettivamente accanto a te mentre tentavi di non svenire sulla sedia.

Tuttavia, io ricordo che, a parte un momentaneo senso di sconvolgimento quando ti accorgevi che non stavi più parlando di animali “senza spina dorsale” e che l'evoluzione di rettili e anfibi apparteneva, in fondo in fondo, allo stesso filo che giustificava la tua presenza sulla terra, la materia era stupenda. Difficile, ramificata, mnemonica in molti punti, ma deliziosa. A distanza di anni (ahimé) non ricordo nulla di particolare, ma ricordo con meraviglia la soddisfazione di vedere i tanti apparati che abbiamo ancora oggi in corpo mutare nel tempo e nei vari gruppi.

Non appena i violini avranno smesso di suonare questa bella melodia nostalgica che accompagna il mio momento della memoria, inizieremo a parlare dell'argomento di oggi: il pesce elefante, diverso dallo squalo elefante, per chi avesse il dubbio.

Intanto ha una faccia piuttosto simpatica e possiede una proboscide molle con cui cerca sotto alla sabbia dei fondali il suo cibo, di solito costituito da crostacei. Il pesce elefante vive nei mari dell'Australia e della Nuova Zelanda ed il suo nome scientifico è Callorhinchus milii.

A gennaio di quest'anno è stato pubblicato un interessante articolo su Nature che parlava con enfasi estrema del fatto che il genoma del pesce elefante era stato finalmente sequenziato.

Grida di stupore degli scienziati, groupie impazzite sotto alla sede della conosciuta rivista scientifica.

B. Venkatesh, uno degli autori dello studio, con un pesce elefante.
"Lo sequenzio io il tuo genoma!"
(Courtesy of B. Venkatesh)
 
In generale, è una cosa che interessa soltanto un ristretto gruppo di persone addette ai lavori, come spesso accade quando si va nello specifico di qualsiasi materia. Per dire, è lo stesso effetto che mi farebbe sapere che Leopardi come spuntino pomeridiano mangiava un kiwi. Io probabilmente mi chiederei dove li trovava all'epoca, ma gli studiosi di letteratura parlerebbero per giorni di come il kiwi abbia influenzato la poetica di Giacomo.

Senza un contesto è difficile far quadrare le cose, nel caso del pesce elefante o callorinco il sequenziamento è importante perché innanzitutto ci dice che ha un genoma abbastanza limitato, circa un terzo di quello umano. In secondo luogo questo genoma è molto “datato”, se mi passate il termine.

Il callorinco è stato definito come l'animale in assoluto più lento al mondo ad evolvere.

Il suo DNA è oggetto di studio perché questo pesce si può definire un fossile vivente. Studiando i suoi geni, è possibile avere una fotografia, da mettere man mano a fuoco con successivi studi, dei primi stadi dell'evoluzione.

Il termine fossile vivente fu coniato da Charles Darwin per indicare quegli organismi animali e vegetali che hanno avuto un tasso di evoluzione molto basso e perciò sono rimasti invariati per centinaia di migliaia di anni. Un esempio è il Ginkgo biloba, una pianta che esisteva ai tempi dei dinosauri, ed era alta dai 30 ai 40 metri.

Parlando del regno animale, tuttavia, in principio c'erano gli gnatostomi: un gruppone in cui sono stati inseriti tutti i Vertebrati provvisti di mandibole.

La storia evolutiva procede dai pesci (cartilaginei e poi ossei), agli anfibi, ai rettili, agli uccelli e continua con i mammiferi. E' chiaro che dei gruppi più recenti abbiamo moltissime testimonianze, ma è altrettanto ovvio che studi sul genoma dei cosiddetti fossili viventi ci aiuta a capire le tappe evolutive delle specie più antiche.

Dagli gnatostomi, infatti, nascono due gruppi diversi tra loro: i pesci cartilaginei e quelli ossei, distinti tra loro per l'elemento che forma il loro scheletro. Da un lato abbiamo infatti la cartilagine, dall'altro, appunto, il tessuto osseo.

Il pesce elefante ha un genoma talmente “vecchio” che è più simile a quello dei primi gnatostomi di circa 450 milioni di anni fa, rispetto ai pesci ossei odierni, suoi non troppo lontani cugini.

E' importante studiarne il contenuto per conoscere meglio le radici del processo evolutivo che ha portato fino a noi.
Lo studio in questione è stato pubblicato da un gruppo di ricercatori di Singapore e St Louis e lo potete leggere qui.
Tra le altre cose, questa ricerca potrebbe riuscire a spiegare il motivo per cui i pesci ossei hanno le ossa e quelli cartilaginei no. L'ipotesi fatta dagli scienziati è che al pesce elefante manchino i geni per alcune proteine che legano il calcio e promuovono l'ossificazione.

Semplicemente, non le producono perchè nel loro DNA non ci sono le istruzioni per farlo.

Infatti, in esperimenti su pesci ossei in cui sono stati silenziati i geni che effettivamente sono assenti nel callorinco, si è visto che lo scheletro dei pesciolini in esame rimaneva costituito di cartilagine.

Lo studio sul genoma del pesce elefante permetterà anche di imparare qualcosa di più sui meccanismi di immunità specifica del nostro organismo, un altro sguardo alle radici per capire meglio il funzionamento odierno del nostro sistema immunitario.

A cosa serve tutto ciò? A fare luce sui meccanismi evolutivi, che spesso si rivelano concatenati anche se ad un primo sguardo possono sembrare totalmente estranei.

Per fortuna la Natura non ci ha lasciato orfani di questi animali dall'antico retaggio ancora scritto nel DNA e ci permette di guardare indietro per andare avanti con i nostri studi.

A volte, la lentezza è un pregio.