Al
secondo anno di università in molti abbiamo sbattuto la faccia
contro l'Anatomia Comparata dei Vertebrati. Il nostro professore
sembrava poco evoluto nei rapporti umani e le sue lezioni erano delle
lunghe dissertazioni su alberi filogenetici
lunghissimi e complicati. Come se non bastasse, a questa sua scarsa
propensione alla giovialità si aggiungeva il fatto che quasi tutti
gli studenti lasciavano il suo esame per ultimo e lo supplicavano di
lasciarli liberi dal giogo universitario anche con un diciassette e
tre quarti e un calcione nel didietro.
Lui,
in modo piuttosto prevedibile, non era contento e bocciava quasi
tutti.
Quindi
i suoi esami erano le sedi in cui venivano alimentate le più bieche
leggende metropolitane, tipo che se facevi la tesi con lui ti faceva
stare delle giornate intere a contare le scaglie di un pesce al
microscopio, oppure che all'imbrunire diventasse Mister Hyde.
Il
suo esame consisteva unicamente di un colloquio orale su un tomo
scritto piccolissimo, che se avevi il libro fotocopiato non riuscivi
a prendere un voto alto al primo appello perché al capitolo dieci i
tuoi genitori dovevano portarti dall'oculista.
La stranezza del
professore risiedeva anche nel fatto che, al momento della tua grande
prova, lui ti metteva davanti un modellino e ti chiedeva di
spiegarlo. In molti erano sopraffatti dalla richiesta di spiegazione
su un gigantesco uovo di struzzo che era effettivamente accanto a te
mentre tentavi di non svenire sulla sedia.
Tuttavia,
io ricordo che, a parte un momentaneo senso di sconvolgimento quando
ti accorgevi che non stavi più parlando di animali “senza spina
dorsale” e che l'evoluzione di rettili e anfibi apparteneva, in
fondo in fondo, allo stesso filo che giustificava la tua presenza
sulla terra, la materia era stupenda. Difficile, ramificata,
mnemonica in molti punti, ma deliziosa. A distanza di anni (ahimé)
non ricordo nulla di particolare, ma ricordo con meraviglia la
soddisfazione di vedere i tanti apparati che abbiamo ancora oggi in
corpo mutare nel tempo e nei vari gruppi.
Non
appena i violini avranno smesso di suonare questa bella melodia
nostalgica che accompagna il mio momento della memoria, inizieremo a
parlare dell'argomento di oggi: il pesce elefante, diverso dallo
squalo elefante, per chi avesse il dubbio.
Intanto
ha una faccia piuttosto simpatica e possiede una proboscide molle con
cui cerca sotto alla sabbia dei fondali il suo cibo, di solito
costituito da crostacei. Il pesce elefante vive nei mari
dell'Australia e della Nuova Zelanda ed il suo nome scientifico è
Callorhinchus milii.
A
gennaio di quest'anno è stato pubblicato un interessante articolo su
Nature che parlava con enfasi estrema del fatto che il genoma del
pesce elefante era stato finalmente sequenziato.
Grida
di stupore degli scienziati, groupie impazzite sotto alla sede della
conosciuta rivista scientifica.
B. Venkatesh, uno degli autori dello studio, con un pesce elefante. "Lo sequenzio io il tuo genoma!" (Courtesy of B. Venkatesh) |
In
generale, è una cosa che interessa soltanto un ristretto gruppo di
persone addette ai lavori, come spesso accade quando si va nello
specifico di qualsiasi materia. Per dire, è lo stesso effetto che mi
farebbe sapere che Leopardi come spuntino pomeridiano mangiava un
kiwi. Io probabilmente mi chiederei dove li trovava all'epoca, ma gli
studiosi di letteratura parlerebbero per giorni di come il kiwi abbia
influenzato la poetica di Giacomo.
Senza
un contesto è difficile far quadrare le cose, nel caso del pesce
elefante o callorinco il sequenziamento è importante perché
innanzitutto ci dice che ha un genoma abbastanza limitato, circa un
terzo di quello umano. In secondo luogo questo genoma è molto
“datato”, se mi passate il termine.
Il
callorinco è stato definito come l'animale in assoluto più lento al
mondo ad evolvere.
Il
suo DNA è oggetto di studio perché questo pesce si può definire un
fossile vivente. Studiando i suoi geni, è possibile avere una
fotografia, da mettere man mano a fuoco con successivi studi, dei
primi stadi dell'evoluzione.
Il
termine fossile vivente fu coniato da Charles Darwin per indicare
quegli organismi animali e vegetali che hanno avuto un tasso di
evoluzione molto basso e perciò sono rimasti invariati per centinaia
di migliaia di anni. Un esempio è il Ginkgo biloba, una pianta che
esisteva ai tempi dei dinosauri, ed era alta dai 30 ai 40
metri.
Parlando
del regno animale, tuttavia, in principio c'erano gli gnatostomi: un
gruppone in cui sono stati inseriti tutti i Vertebrati provvisti di
mandibole.
La
storia evolutiva procede dai pesci (cartilaginei e poi ossei), agli
anfibi, ai rettili, agli uccelli e continua con i mammiferi. E'
chiaro che dei gruppi più recenti abbiamo moltissime testimonianze,
ma è altrettanto ovvio che studi sul genoma dei cosiddetti fossili
viventi ci aiuta a capire le tappe evolutive delle specie più
antiche.
Dagli
gnatostomi, infatti, nascono due gruppi diversi tra loro: i pesci
cartilaginei e quelli ossei, distinti tra loro per l'elemento che
forma il loro scheletro. Da un lato abbiamo infatti la cartilagine,
dall'altro, appunto, il tessuto osseo.
Il
pesce elefante ha un genoma talmente “vecchio” che è più simile
a quello dei primi gnatostomi di circa 450 milioni di anni fa,
rispetto ai pesci ossei odierni, suoi non troppo lontani cugini.
E'
importante studiarne il contenuto per conoscere meglio le radici del
processo evolutivo che ha portato fino a noi.
Lo
studio in questione è stato pubblicato da un gruppo di ricercatori
di Singapore e St Louis e lo potete leggere qui.
Tra
le altre cose, questa ricerca potrebbe riuscire a spiegare il motivo per
cui i pesci ossei hanno le ossa e quelli cartilaginei no. L'ipotesi
fatta dagli scienziati è che al pesce elefante manchino i geni per
alcune proteine che legano il calcio e promuovono l'ossificazione.
Semplicemente,
non le producono perchè nel loro DNA non ci sono le istruzioni per
farlo.
Infatti,
in esperimenti su pesci ossei in cui sono stati silenziati i geni che
effettivamente sono assenti nel callorinco, si è visto che lo
scheletro dei pesciolini in esame rimaneva costituito di cartilagine.
Lo
studio sul genoma del pesce elefante permetterà anche di imparare
qualcosa di più sui meccanismi di immunità specifica del nostro
organismo, un altro sguardo alle radici per capire meglio il
funzionamento odierno del nostro sistema immunitario.
A
cosa serve tutto ciò? A fare luce sui meccanismi evolutivi, che
spesso si rivelano concatenati anche se ad un primo sguardo possono
sembrare totalmente estranei.
Per
fortuna la Natura non ci ha lasciato orfani di questi animali
dall'antico retaggio ancora scritto nel DNA e ci permette di guardare
indietro per andare avanti con i nostri studi.
A
volte, la lentezza è un pregio.