venerdì 25 aprile 2014

Gli abiti nuovi del Granturco

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Se non avreste mai creduto di poter vedere in vita vostra una pannocchia di mais di un colore diverso dal giallo, dovrete cambiare idea dopo aver letto questo post.
Che ci crediate o no, esiste una varietà di mais colorato. O meglio, esiste da un po' di tempo, grazie alla pazienza e ad un certo grado di dimestichezza con la coltivazione delle piante di granoturco di Carl Barnes, agricoltore statunitense.
Il signor Barnes, per metà di origine Cherokee, tuttora vivente in Oklahoma, ha voluto cercare il legame con le sue origini piantando antiche varietà di mais che erano cadute nell'oblio, soppiantate da tipologie più resistenti a freddo ed intemperie.
Man mano che il suo mais cresceva ha voluto immaginare che ci fosse la possibilità di crearne una varietà con chicchi di colore diverso l'uno dall'altro, tutti nella stessa tonalità oppure belle pannocchie color arcobaleno.
Non storcete il naso, non sto parlando dei tanto temuti OGM, di cui di frequente si parla molto e a sproposito, ma di un uomo che ha dedicato gran parte della sua esistenza a individuare piante che avessero particolari colori della pannocchia. In seguito le ha selezionate e quindi ripiantate, osservando cosa accadeva nella generazione successiva.
Per completezza, è bene ricordare che il colore della pannocchia di mais non è influenzato dall'ambiente esterno, come invece accade per altre caratteristiche della pianta, come ad esempio l'altezza. Quindi la pannocchia multicolore deriva solo da incroci effettuati da mano umana.
Non si sa con precisione per quanti anni Barnes abbia lavorato a quello che viene chiamato Glass Gem Corn o Mais Gemma di vetro, scegliendo le piante che producevano chicchi dai colori vividi, ma il risultato è visivamente straordinario.
Gran parte della diversità del mais che esisteva in passato si è ormai estinta, probabilmente a causa della diffusione della monocoltivazione e delle piante che danno una resa migliore e possiedono maggiore resistenza. Ciò ha inevitabilmente causato una restrizione della biodiversità vegetale e, per tutte le piante che facevano fatica ad essere produttive e resistenti, il pericolo di scomparsa.
Nelle foto potete vedere solo alcune delle varietà di colore delle pannocchie di mais, normalmente commestibili e che danno la possibilità di piantare i semi per ottenere una nuova generazione.


Glass Gem Corn - via Seeds Trust Facebook page


La domanda è lecita: ma a che cosa serve una pannocchia multicolore, se quelle gialle sono già commestibili?
La mia personale opinione è che in un mondo in costante omologazione, fatto che ha i suoi pro ed i suoi contro indubbiamente, un po' di diversità in più non fa mai male.
La pannocchia colorata onora il lavoro di un uomo con una forte passione ed una costanza nella ricerca e nella selezione che sarebbe bene tenere a mente.
Stagione dopo stagione il suo mais è cresciuto, lo ha sfamato e gli ha permesso di esternare in qualche modo la sua creatività.
Naturalmente Carl Barnes è stato solo il primo di una schiera di agricoltori, di professione e non, che hanno iniziato a piantare i semi del suo mais. I preziosi chicchi furono donati infatti alla Seeds Trust, una piccola azienda dell'Arizona a conduzione familiare, che si incaricò di preservare questa varietà di mais. Più tardi l'azienda si è evoluta nella NATIVE Seeds/Search, un'organizzazione no profit che si occupa della conservazione di semi di particolari specie vegetali (www.nativeseeds.org).
C'è un vero e proprio negozio online da cui si possono ordinare semi di diverse piante, tra cui ovviamente il famoso Glass Gem Corn, un tipo di mais che non si mangia direttamente dalla pannocchia, ma è ottimo per ricavarne farina e popcorn.
Non potrete tuttavia mostrare agli amici convenuti nella vostra casa il pop corn colorato; mi dispiace informarvi che è bianco!

Nel 1983 Barbara McClintock ottenne il premio Nobel per i suoi studi e le sue scoperte riguardanti gli elementi trasponibili del genoma del mais.
I trasposoni sono delle parti di DNA che saltellano qua e là nel genoma (succede anche in quello umano) e provocano ripercussioni sull'espressione genica: un gene può smettere di produrre proteine o risultare inalterato dall'inserzione di un elemento trasponibile nella sua sequenza.
Il fatto più eclatante ed anche quello che permise alla McClintock di ottenere l'ambito premio fu quello di sfatare il mito di un genoma immobile.
Senza approfondire troppo il concetto, esistono due tipologie di trasposoni: quelli che riescono a muoversi nel genoma da soli e quelli che non ci riescono.
Un po' come quando ti raccontano la storia che nella vita esistono due gruppi di persone: quelle che stanno alla guida e quelle sedute sul sedile del passeggero. I primi riescono ad andare dove vogliono e gli altri invece devono per forza farsi portare.
A differenza dei meccanismi di ricombinazione genica, che sono mirati ad una determinata posizione sui geni, la trasposizione è casuale e può avvenire in ciascuno dei 10 cromosomi del mais.
Un chicco di mais è composto da tre strati: l'endosperma, la parte più interna, il pericarpo e l'aleurone, la parte più esterna.
La colorazione dei chicchi è regolata dalla sovrapposizione di questi tre strati. Essi possono assumere diverse sfumature a seconda dei geni che si esprimono o addirittura nessuna colorazione, come nel caso dell'endosperma, se il trasposone interrompe il gene che di solito fa produrre la proteina responsabile del colore giallo.
Parlando con una mia amica di questo argomento, lei mi ha fatto una domanda che al principio mi ha spiazzata, poi mi ha spinta a fare ulteriori ricerche.
Ve la scrivo.
Molti dei colori che vediamo in queste pannocchie sono secondari, formati cioè per sovrapposizione dei diversi strati del chicco, cosa che torna anche a me che di disegno e pittura ci capisco poco o niente.
Il giallo e il rosso, colori primari, risultano normali anche nell'esperienza comune, visto che di pannocchie gialle ne avrete viste a bizzeffe e quelle rosse sono dovute ad un endosperma bianco a cui si sovrappongono strati rossastri, ricchi di antocianine e flobafeni, presenti nei due strati più superficiali del chicco.
Ma il blu, come ve lo spiegate? E' un colore primario, quindi il gioco delle sovrapposizioni non funziona più, tuttavia gli strati più esterni sono rossastri di solito, perciò come si fa ad ottenere una tinta del genere?
Esiste il mais blu, gentili lettori, ed è semplicemente un mais normale con un' altissima concentrazione di antocianine negli strati più superficiali del chicco, che da rossastri arrivano ad una colorazione che vira al blu.
Si tratta di una di quelle antiche varietà di mais di cui parlavamo all'inizio di questo post, coltivata un tempo dalle tribù native americane degli Hopi e ancora oggi in alcuni stati come l'Arizona ed il New Mexico, oltre che in Messico.
Per dire, negli Stati Uniti si trovano anche le patatine di mais blu.
Quindi anche per i chicchi blu si può parlare di sovrapposizione di strati ricchissimi di antocianine su un endosperma base bianco.

Per ulteriori approfondimenti consiglio questo post che per me è stato molto chiarificatore: Jumping genes make fall come alive dal blog di Kirk Maxey.

Oltre a questo, vorrei personalmente ringraziare il curatore di quest'ultimo blog per la sua gentile disponibilità e dedicare a lui questo piccolo scritto.





giovedì 17 aprile 2014

Life in plastic is fantastic ... or is it?

Era il lontano 1997 ed un gruppo danese/norvegese, i cui componenti avevano nomi impronunciabili, scalava le classifiche mondiali con un singolo rimasto impresso nella mente di molti giovani: Barbie Girl. Gli Aqua, questo il nome del complesso musicale, sfondarono con il singolo anche grazie al loro video in cui i due cantanti vestivano i panni di Barbie e Ken. Dato il testo della canzone, non proprio lusinghiero nei confronti della celebre bambola, furono querelati dalla casa produttrice Mattel, ma la questione si risolse con un giudizio a favore del gruppo, poiché la canzone fu considerata dai giudici una parodia. 
Per chi non lo ricorda, ecco qui il video musicale in questione.


Una strofa di questa canzone, a suo tempo ballata anche dalle mie gambe di cemento armato, recitava “Life in plastic is fantastic”. Con cupa ironia, mi è tornata in mente l'altro giorno, quando, rientrata dalla spesa e in procinto di liberare dal loro imballaggio gli alimenti acquistati per riporli nella dispensa, ho visto il cestino della plastica riempirsi ad una velocità allarmante.
In pratica, avevo gettato la spazzatura un'ora prima e sarei già dovuta scendere di nuovo.
Così mi sono chiesta: per quale motivo la plastica è utilizzata in modo così estensivo per gli imballaggi alimentari ed anche per molti altri oggetti che utilizziamo nella vita quotidiana?
Innanzitutto è un materiale di facile e piuttosto economica lavorazione, ma soprattutto è molto resistente, idrorepellente e resistente agli acidi, leggero e inattaccabile da funghi e batteri.
Insomma, un materiale di origine quasi divina, utile nella vita quotidiana e molto versatile.
Le informazioni a me ignote, tuttavia, erano molteplici.
Ad esempio non ero a conoscenza del fatto che i polimeri plastici derivassero dalla lavorazione del petrolio, anche se sapevo che la plastica non è biodegradabile, ma solamente fotodegradabile. 
Anche quest'ultimo processo, tuttavia, riesce a ridurre il materiale in particelle microscopiche, ma non lo fa scomparire del tutto.
Un argomento che ha attirato la mia attenzione è stato quello del Great Pacific Garbage Patch, la grande chiazza di spazzatura del Pacifico, e un po' mi vergogno di questa mia scarsa informazione.
Il Great Pacific Garbage Patch è il risultato della concentrazione di inquinanti plastici marini operata dalle grandi correnti che esistono nella zona dell'Oceano Pacifico. A differenza di quanto possa venirci in mente, non si tratta di un'isola di rottami plastici che va alla deriva nell'oceano, quanto di minuscolo particolato sospeso sulla superficie dell'acqua o appena al di sotto di essa. Quale sia la sua estensione è solo una congettura poiché non è possibile vedere la chiazza da un aereo o da satellite, ma solo campionando la zona. Le stime fanno comunque aggirare la quota tra i 700.000 km2 e più di 15.000.000 km2. Alcuni la fanno breve e dicono che è circa due volte l'estensione degli Stati Uniti.
Prima di tirare un sospiro di sollievo pensando che è lontana mille miglia e più dalla nostra penisola, meglio pensare al fatto che esistono altre due zone simili, una nell'Oceano Indiano ed una nell'Atlantico.
Che cosa c'è all'interno di queste chiazze? Essenzialmente spazzatura a componente plastica, per più della metà derivante da scarichi illegali o semplicemente da gente che getta in mare bottiglie di plastica, spazzolini, giocattoli e chi più ne ha più ne metta. L'altra quota del totale deriva da navi da carico, piattaforme e navi da pesca. Da non sottovalutare è anche il contributo dato dai grandi fiumi che sfociano ovviamente nel mare e portano con sé tutta la sconsideratezza di uomini che hanno scaricato a monte questo materiale.
Consideriamo prima di tutto che in molte delle aree campionate la concentrazione totale di plastica è circa sette volte superiore a quella dello zooplancton e, dunque, immaginiamo senza ulteriore sforzo quanto sia pericoloso per la fauna marina abitare un simile ecosistema. Senza parlare di molti uccelli che mangiano questa stessa plastica, che viene ritrovata nel loro stomaco e documentata da foto reperibili facilmente in rete.
Se proprio non ci si sente nemmeno un minimo impauriti da queste informazioni, basta pensare che le particelle polimeriche di plastica rilasciano inquinanti organici tossici (PCB, IPA) che vengono ingeriti dalle meduse, solo per fare un esempio, le quali a loro volta sono predate da pesci più grandi. Gli stessi pesci che poi andiamo a comprare al mercato.
Anche qui l'equazione è semplice quanto l'ingresso di sostanze tossiche nella catena alimentare.
Ovviamente lo smaltimento delle materie plastiche e lo sviluppo di nuovi materiali biodegradabili che abbiano le stesse caratteristiche è al centro delle ricerche di numerose aziende del settore, ma ancora molta strada è all'orizzonte prima di poter ridimensionare quella che ha le carte in regola per essere definita una vera e propria tragedia per il nostro pianeta e per i suoi abitanti.
A mio avviso, l'opportuna sensibilizzazione è già un gran passo avanti, anche se a volte imparare queste cose ci colpisce nel profondo.
Mi preoccupo di più, tuttavia, quando questo argomento non sortisce alcun effetto nell'ascoltatore.

Il collegamento qui sotto è ad un video trovato su YouTube e secondo me di grande interesse, poiché in quattro minuti fa venire un magone epocale. Ovviamente ce ne sono moltissimi altri, se voleste approfondire l'argomento.
Buona visione.