giovedì 15 maggio 2014

La melata e il melo, parenti o no?

Personalmente non sono una grande estimatrice del miele, nel senso che averlo come ingrediente nei dolci mi piace molto, ma il solo pensiero di mangiarlo direttamente su una fetta di pane mi dà un'impressione di dolore ai denti.
In Italia esistono moltissime realtà che producono miele e altrettante attività volte a promuoverne il consumo e valorizzarne la qualità.
Ad ogni fiera, inoltre, non manca mai lo stand che vende miele.
A quella in onore del patrono della mia città natale, c'è sempre una bancarella, sotto al loggiato comunale, che espone una teca con dentro moltissime api ed un' apona gigante che altri non è se non la regina. La gente si ferma a guardarle; io, che ho un conto in sospeso con le api da quando mi hanno punto alla fontana dei giardinetti, passo oltre velocemente.
Ciò non toglie che questi insetti siano in qualche modo ammalianti, con i loro voli tutt'altro che casuali ed i compiti perfettamente divisi. Oltre a ciò, appunto, producono questo nettare dalle proprietà straordinarie, il miele, e tutta una serie di altri composti estremamente utili: la pappa reale, nota alle madri di una buona parte del globo, e la propoli, di cui tutti conosciamo le proprietà fondamentali quando “giù nel gargaroz sentiamo il diavoloz” [cit. Elio e le Storie Tese].
E' facile perdere la bussola davanti agli espositori di negozi e bancarelle, dato che ogni miele, meraviglia delle meraviglie, può provenire da una pianta diversa. C'è il miele di betulla, quello di castagno, il millefiori, il miele di fiori d'arancio e via dicendo. Poi c'è anche il miele di melata.
Io ho sempre pensato che la melata fosse un albero, tipo una variante del melo. Poi, dato che a casa mia la domenica a pranzo eravamo sempre sintonizzati su Linea Verde, ho imparato che le cose non stanno così e non vedrò mai nella mia vita un albero di melata. 
Vi spiego perchè.
Il miele di melata è l'unico miele che le api non producono a partire dal nettare dei fiori.
La melata, infatti, è una secrezione zuccherina emessa da particolari tipi di insetti che si nutrono della linfa della piante succhiandola direttamente da esse.
I piccoli insetti, appartenenti al gruppo degli Omotteri, usano come unico alimento della loro dieta la linfa, tuttavia hanno bisogno di soddisfare anche il loro fabbisogno di amminoacidi, oltre a quello di zuccheri. La linfa contiene amminoacidi solo in minima parte, quindi, per arrivare alla quota che serve loro per vivere, devono prelevarne moltissima e “buttare” molta della parte zuccherina di questo fluido.
Questi insetti riescono a farlo grazie ad un adattamento del loro sistema digerente, chiamato camera filtrante, che permette appunto di filtrare acqua e zuccheri e convogliarli verso l'intestino posteriore. Così facendo, si concentra il substrato aminoacidico da assorbire e si mandano l'acqua e gli zuccheri scartati verso la parte posteriore dell'intestino e dunque verso l'ano, da cui vengono espulsi in piccole goccioline.
In ambienti aridi o desertici, come la Sierra Nevada, l'Australia e il Medio Oriente, la melata è un mezzo diretto di sostentamento, data l'alta concentrazione di zuccheri.
In ambienti in cui scarseggiano le piante da bottinare, le api stesse ricorrono a questa sostanza zuccherina per fare il miele. A partire dagli anni ottanta, specie nella parte centro settentrionale della penisola italiana, si sono susseguite delle infestazioni di Metcalfa pruinosa, un insetto omottero di difficile controllo, che raggiunge alte densità di popolazione e quindi dà avvio alla produzione di un'altissima quota di melata e di conseguenza alla possibilità di avere ingenti quantità di miele di melata. A volte, proprio per questa ragione, esso viene definito anche miele di Metcalfa.
Questo tipo di miele viene più apprezzato dagli abitanti del Nord Europa poiché non è particolarmente dolce, è di colore scuro ed è anche molto denso. Ha, insomma, un gusto particolare che si discosta dalla dolcezza del miele a cui siamo abituati.
Da un punto di vista ecologico, inoltre, la melata è un'importante fonte alimentare per un vasto numero di insetti, i quali, quando scarseggia il nettare, la usano come cibo. E' il caso degli appartenenti al gruppo dei Ditteri (mosche) ed a quello degli Imenotteri (api, vespe, formiche).
Come bonus, l'immagine di una formica beona.

Imenottero con una goccia di melata - Autore: Böhringer Friedrich (Opera propria)   

Vi lascio con un video in cui si vede sia la Metcalfa che l'ape intenta a raccogliere la melata dalle foglie.


 Il miele di melata - Metcalfa e ape al lavoro



giovedì 8 maggio 2014

Elogio della lentezza - Il pesce elefante

Al secondo anno di università in molti abbiamo sbattuto la faccia contro l'Anatomia Comparata dei Vertebrati. Il nostro professore sembrava poco evoluto nei rapporti umani e le sue lezioni erano delle lunghe dissertazioni su alberi filogenetici lunghissimi e complicati. Come se non bastasse, a questa sua scarsa propensione alla giovialità si aggiungeva il fatto che quasi tutti gli studenti lasciavano il suo esame per ultimo e lo supplicavano di lasciarli liberi dal giogo universitario anche con un diciassette e tre quarti e un calcione nel didietro.

Lui, in modo piuttosto prevedibile, non era contento e bocciava quasi tutti.

Quindi i suoi esami erano le sedi in cui venivano alimentate le più bieche leggende metropolitane, tipo che se facevi la tesi con lui ti faceva stare delle giornate intere a contare le scaglie di un pesce al microscopio, oppure che all'imbrunire diventasse Mister Hyde.

Il suo esame consisteva unicamente di un colloquio orale su un tomo scritto piccolissimo, che se avevi il libro fotocopiato non riuscivi a prendere un voto alto al primo appello perché al capitolo dieci i tuoi genitori dovevano portarti dall'oculista. 
La stranezza del professore risiedeva anche nel fatto che, al momento della tua grande prova, lui ti metteva davanti un modellino e ti chiedeva di spiegarlo. In molti erano sopraffatti dalla richiesta di spiegazione su un gigantesco uovo di struzzo che era effettivamente accanto a te mentre tentavi di non svenire sulla sedia.

Tuttavia, io ricordo che, a parte un momentaneo senso di sconvolgimento quando ti accorgevi che non stavi più parlando di animali “senza spina dorsale” e che l'evoluzione di rettili e anfibi apparteneva, in fondo in fondo, allo stesso filo che giustificava la tua presenza sulla terra, la materia era stupenda. Difficile, ramificata, mnemonica in molti punti, ma deliziosa. A distanza di anni (ahimé) non ricordo nulla di particolare, ma ricordo con meraviglia la soddisfazione di vedere i tanti apparati che abbiamo ancora oggi in corpo mutare nel tempo e nei vari gruppi.

Non appena i violini avranno smesso di suonare questa bella melodia nostalgica che accompagna il mio momento della memoria, inizieremo a parlare dell'argomento di oggi: il pesce elefante, diverso dallo squalo elefante, per chi avesse il dubbio.

Intanto ha una faccia piuttosto simpatica e possiede una proboscide molle con cui cerca sotto alla sabbia dei fondali il suo cibo, di solito costituito da crostacei. Il pesce elefante vive nei mari dell'Australia e della Nuova Zelanda ed il suo nome scientifico è Callorhinchus milii.

A gennaio di quest'anno è stato pubblicato un interessante articolo su Nature che parlava con enfasi estrema del fatto che il genoma del pesce elefante era stato finalmente sequenziato.

Grida di stupore degli scienziati, groupie impazzite sotto alla sede della conosciuta rivista scientifica.

B. Venkatesh, uno degli autori dello studio, con un pesce elefante.
"Lo sequenzio io il tuo genoma!"
(Courtesy of B. Venkatesh)
 
In generale, è una cosa che interessa soltanto un ristretto gruppo di persone addette ai lavori, come spesso accade quando si va nello specifico di qualsiasi materia. Per dire, è lo stesso effetto che mi farebbe sapere che Leopardi come spuntino pomeridiano mangiava un kiwi. Io probabilmente mi chiederei dove li trovava all'epoca, ma gli studiosi di letteratura parlerebbero per giorni di come il kiwi abbia influenzato la poetica di Giacomo.

Senza un contesto è difficile far quadrare le cose, nel caso del pesce elefante o callorinco il sequenziamento è importante perché innanzitutto ci dice che ha un genoma abbastanza limitato, circa un terzo di quello umano. In secondo luogo questo genoma è molto “datato”, se mi passate il termine.

Il callorinco è stato definito come l'animale in assoluto più lento al mondo ad evolvere.

Il suo DNA è oggetto di studio perché questo pesce si può definire un fossile vivente. Studiando i suoi geni, è possibile avere una fotografia, da mettere man mano a fuoco con successivi studi, dei primi stadi dell'evoluzione.

Il termine fossile vivente fu coniato da Charles Darwin per indicare quegli organismi animali e vegetali che hanno avuto un tasso di evoluzione molto basso e perciò sono rimasti invariati per centinaia di migliaia di anni. Un esempio è il Ginkgo biloba, una pianta che esisteva ai tempi dei dinosauri, ed era alta dai 30 ai 40 metri.

Parlando del regno animale, tuttavia, in principio c'erano gli gnatostomi: un gruppone in cui sono stati inseriti tutti i Vertebrati provvisti di mandibole.

La storia evolutiva procede dai pesci (cartilaginei e poi ossei), agli anfibi, ai rettili, agli uccelli e continua con i mammiferi. E' chiaro che dei gruppi più recenti abbiamo moltissime testimonianze, ma è altrettanto ovvio che studi sul genoma dei cosiddetti fossili viventi ci aiuta a capire le tappe evolutive delle specie più antiche.

Dagli gnatostomi, infatti, nascono due gruppi diversi tra loro: i pesci cartilaginei e quelli ossei, distinti tra loro per l'elemento che forma il loro scheletro. Da un lato abbiamo infatti la cartilagine, dall'altro, appunto, il tessuto osseo.

Il pesce elefante ha un genoma talmente “vecchio” che è più simile a quello dei primi gnatostomi di circa 450 milioni di anni fa, rispetto ai pesci ossei odierni, suoi non troppo lontani cugini.

E' importante studiarne il contenuto per conoscere meglio le radici del processo evolutivo che ha portato fino a noi.
Lo studio in questione è stato pubblicato da un gruppo di ricercatori di Singapore e St Louis e lo potete leggere qui.
Tra le altre cose, questa ricerca potrebbe riuscire a spiegare il motivo per cui i pesci ossei hanno le ossa e quelli cartilaginei no. L'ipotesi fatta dagli scienziati è che al pesce elefante manchino i geni per alcune proteine che legano il calcio e promuovono l'ossificazione.

Semplicemente, non le producono perchè nel loro DNA non ci sono le istruzioni per farlo.

Infatti, in esperimenti su pesci ossei in cui sono stati silenziati i geni che effettivamente sono assenti nel callorinco, si è visto che lo scheletro dei pesciolini in esame rimaneva costituito di cartilagine.

Lo studio sul genoma del pesce elefante permetterà anche di imparare qualcosa di più sui meccanismi di immunità specifica del nostro organismo, un altro sguardo alle radici per capire meglio il funzionamento odierno del nostro sistema immunitario.

A cosa serve tutto ciò? A fare luce sui meccanismi evolutivi, che spesso si rivelano concatenati anche se ad un primo sguardo possono sembrare totalmente estranei.

Per fortuna la Natura non ci ha lasciato orfani di questi animali dall'antico retaggio ancora scritto nel DNA e ci permette di guardare indietro per andare avanti con i nostri studi.

A volte, la lentezza è un pregio.